Responsabilità penale dei revisori (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 47900/2023, udienza del 13 ottobre 2023,ha affermato che, ai fini del reato di falsità nelle relazioni comunicazioni dei responsabili della revisione legale, la condotta dei soggetti agenti deve essere necessariamente commissiva.

La bancarotta societaria

L’art. 223, comma secondo, n. 1, LF, punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del Codice civile.

…Reato proprio a soggettività ristretta

Viene in rilievo un reato proprio (non esclusivo) o a “soggettività ristretta” (come la gran parte dei reati fallimentari) che richiede la partecipazione di almeno un soggetto rientrante nelle categorie codificate dalla norma. In forza dell’art. 110 cod. pen. anche l’extraneus (es. dipendente, collaboratore, professionista esterno) può concorrere nel reato con il soggetto qualificato fornendo un consapevole contributo morale (es. istigazione, determinazione, rafforzamento dell’altrui proposito criminoso) o materiale (es. predisposizione del bilancio falso) alla realizzazione dell’illecito, in presenza della necessaria componente soggettiva.

…Reati societari come elementi costitutivi della bancarotta societaria

I reati societari specificamente indicati — i quali, a loro volta, sono reati propri (nella specie rileva quello di cui all’art. 2621 cod. civ.) — rappresentano un elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta in esame (cfr. Sez. 5, n. 37264 del 19/06/2023).

I fatti di falso in bilancio seguiti dal fallimento della società non costituiscono un’ipotesi aggravata del reato di false comunicazioni sociali, ma integrano l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (Sez. 5, n. 15062 del 02/03/2011, Rv. 250092).

Il reato societario deve perfezionarsi in tutte le sue componenti oggettive e soggettive. Invero i reati societari sono richiamati con tutti i loro estremi, anche psicologici, come definiti dal Codice civile: per “fatti” deve intendersi la “tipicità” del reato, vale a dire l’insieme degli elementi fattuali descritti dal legislatore nell’ambito di una singola disposizione incriminatrice, all’interno della quale, dunque, trova posto anche il dolo (vedi in motivazione Sez. 5 n. 28508 del 12/04/2013; Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016).

…Reato di evento

Si tratta, infine, di reato di evento, nel senso che — a differenza delle ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria di cui al primo comma dell’art. 223 LF, che sono reati di pericolo— nella fattispecie in rassegna il dissesto è evento del reato che, come tale, deve essere causalmente ricollegabile ai reati presupposti e investito del necessario elemento soggettivo.

Quanto all’elemento oggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (tra le altre Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Rv. 261759; Sez. 5 n. 1754 del 20/09/2021, dep. 2022, Rv. 282537).

Sotto il profilo soggettivo si è affermato che, in tema di bancarotta impropria da reato societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (tra le altre Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Rv. 252804; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Rv. 260356; Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, Rv. 261446; Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Rv. 274449).

Responsabilità penale dei revisori

Il revisore esula dal novero dei soggetti qualificati ex art. 223 LF, sicché può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta societaria soltanto in veste di estraneo, secondo le norme generali sul concorso. L’affermazione non è superflua poiché segna la distanza “normativa” che separa amministratori e sindaci, da un lato, e revisori dall’altro, secondo un canone legislativo non sufficientemente recepito dall’editto accusatorio che — equiparandone le posizioni («se gli amministratori avessero correttamente formato bilancio e i sindaci e i revisori avessero svolto la loro funzione legale, avrebbero per contro dovuto evidenziare nel conto economico !a seguente perdita dell’esercizio […]») — pone i revisori sul medesimo piano dei soggetti qualificati, così da ingenerare equivoci già a livello contestativo.

Evoluzione normativa dello statuto penale di revisori

L’evoluzione normativa dello statuto penale dei revisori è tracciata dalle Sezioni unite Deloitte Touche spa (n. 34476 del 23/06/2011) alla cui ampia disamina si rimanda.

Qui è opportuno ricordare che, all’epoca dei fatti, l’attività del revisore era disciplinata dall’art. 2409-ter, cod. civ. e che la falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione era punita dall’art. 2624 cod. civ.

L’art. 2409-ter (modificato dal d. Igs. 2 febbraio 2007 n. 32 che ha stabilito i contenuti della relazione e successivamente abrogato dal d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), sotto la rubrica, “funzioni di controllo contabile” così recitava: «Il revisore o la società incaricata del controllo contabile: a) verifica, nel corso dell’esercizio e con periodicità almeno trimestrale, la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione; b) verifica se il bilancio di esercizio e, ove redatto, il bilancio consolidato corrispondono alle risultanze delle scritture contabili e degli accertamenti eseguiti e se sono conformi alle norme che li disciplinano; c) esprime con apposita relazione un giudizio sul bilancio di esercizio e sul bilancio consolidato, ove redatto. La relazione comprende [comma aggiunto per effetto del d. Igs. n. 32 del 2007]: a) un paragrafo introduttivo che identifica il bilancio sottoposto a revisione e il quadro delle regole di redazione applicate dalla società; b) una descrizione della portata della revisione svolta con l’indicazione dei principi di revisione osservati; c) un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne disciplinano la redazione e se rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell’esercizio; d) eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all’attenzione dei destinatari del bilancio, senza che essi costituiscano rilievi; e) un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio. Nel caso in cui il revisore esprima un giudizio sul bilancio con rilievi, un giudizio negativo o rilasci una dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio, la relazione illustra analiticamente i motivi della decisione. La relazione è datata e sottoscritta dal revisore. La relazione sul bilancio è depositata presso la sede della società a norma dell’articolo 2429. Il revisore o la società incaricata del controllo contabile può chiedere agli amministratori documenti e notizie utili al controllo e può procedere ad ispezioni; documenta l’attività svolta in apposito libro, tenuto presso la sede della società o in luogo diverso stabilito dallo statuto, secondo le disposizioni dell’articolo 2421, terzo comma».

Nella motivazione delle Sezioni unite Deloitte Touche spa si legge che: «Le falsità incidenti sulle comunicazioni e relazioni delle società di revisione furono introdotte nel nostro ordinamento penale dall’art. 14 d.p.r. 31 marzo 1975, n. 136 (norma diretta a garantire la fedele certificazione obbligatoria di bilancio). Il d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, T.U.F.) rimodulò la condotta mediante l’art. 175. Il riordino normativo dei reati societari, portato dal d. Igs. 11 aprile 2002, n. 61, comportò la riformulazione dell’art. 2624 cod. civ.». «La legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) riportò alcune disposizioni relative ai revisori contabili in seno al T.U.F., con la formulazione dell’art. 174-bis, pertinente alle società quotate in borsa (o a società da queste controllate ed a società che emettono strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante) creando, in tal modo, un doppio binario repressivo, rispetto all’art. 2624, norma destinata a reprimere il solo mendacio reso nella revisione contabile relativa a società comuni ed articolata in reato contravvenzionale (di pericolo) ed in fattispecie delittuosa, caratterizzata dalla causazione di danno patrimoniale per i destinatari del messaggio infedele dei revisori (precetti tra loro differenziati anche relativamente al momento soggettivo)». A siffatto quadro è succeduto il d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, entrato in vigore dopo la commissione dei fatti per cui è processo.

…Formulazione previgente dell’art. 2624 cod. civ.

L’art. 2624 cod. civ., qui in rilievo ratione temporls, al primo comma prevede(va) una ipotesi contravvenzionale di reato “proprio”, di pericolo (Sez. 5, n. 23449 del 21/05/2002, Rv. 221920), assistita da dolo specifico e intenzionale, consistente nel fatto dei responsabili della revisione che, nelle relazioni o in altre comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione. Il secondo comma invece punisce, come delitto, la medesima condotta ove produttiva di un evento dannoso: aver cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni.

Il falso deve cadere sulla relazione (che costituisce l’oggetto specifico del reato), nonché su “altre comunicazioni” non meglio specificate e di non agevole individuazione.

La condotta può realizzarsi sia affermando il falso sia occultando informazioni vere.

Si parla, nella seconda ipotesi, di “falso per omissione”, ma è bene chiarire sin d’ora che, al di là della terminologia utilizzata, viene in rilievo, comunque, una condotta che giuridicamente deve definirsi “attiva” e non “omissiva”, poiché si concreta sempre e comunque in una azione: la stesura della relazione.

L’art. 2624 cod. civ. assegna(va) una precisa valenza penale al falso ideologico commesso dal revisore come disposizione che da un lato serve a rafforzare, dall’esterno, la tutela della correttezza e trasparenza delle informazioni a presidio degli interessi patrimoniali della società e dei soci e, dall’altro, ne costituisce anche il limite; nel senso che, come osservato dalle difese, la scelta del legislatore è chiara: i revisori non sono soggetti qualificati del falso in bilancio (pur potendovi concorrere ai sensi dell’art. 110 cod. pen.); il falso nelle relazioni di revisione si colloca al di fuori del perimetro del reato di falso in bilancio punito dai precedenti artt. 2621 e 2622 cod. civ.

Il fatto come concretamente accertato nel giudizio di merito

La lettura delle sentenze di primo e secondo grado rende palese che le condotte accertate e addebitate agli imputati sono consistite nel formulare, nelle relazioni degli anni dal 2005 al 2008, false attestazioni di regolarità dei bilanci e nell’omettere informazioni rilevanti sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società: «i revisori non avevano redatto una relazione attendibile e veritiera, tralasciando importanti segnalazioni in merito alle operazioni in itinere, richieste dai principi contabili, in primis dal principio di prudenza […] i revisori redigevano sempre relazioni prive di rilievi».

Dunque, viene in rilievo una condotta “attiva” e non omissiva, poiché, come detto, anche il c.d. falso per omissione è giuridicamente un fatto commissivo.

Invero nei reati di falso l’omissione non può riguardare l’atto nella sua interezza (e nella specie non l’ha riguardata) assumendo rilevanza l’omissione che riguardi un singolo enunciato significativo di un atto che tuttavia, nel suo complesso, deve essere formato (cfr. Sez. 5, n. 9192 del 23/09/1996, Rv. 205942).

La natura commissiva del fatto accertato è rivelata dalla circostanza che i giudici di merito ricavano l’omissione, cui fanno precipuo riferimento, volgendo “in negativo” la condotta attiva: aver omesso di redigere una relazione veritiera significa aver redatto una relazione falsa; “non aver espresso un giudizio negativo” vuol dire aver espresso un giudizio positivo sapendolo falso. Tuttavia, quando i medesimi giudici si sforzano di individuare obblighi diversi da quelli attinenti ai contenuti della relazione, riescono solo a indicare profili marginali e privi di rilevanza o perché postulano obblighi insussistenti — omessa segnalazione alla CONSOB ma la società T. non era assoggettata alla vigilanza di tale Commissione — o perché si riferiscono a mancate comunicazioni ad amministratori o sindaci la cui rilevanza causale è pressoché nulla dato che, nel presente processo, tutti i potenziali destinatari della segnalazione sono i principali autori del reato.

L’omessa dolosa esecuzione dei controlli contabili da parte dei revisori ha rappresentato un antefatto che è materialmente sfociato in una attività contra legem, di tipo indubbiamente commissivo, costituita dall’avvenuta predisposizione da parte degli imputati di plurime relazioni con cui è stato espresso un giudizio pienamente positivo circa la chiarezza e correttezza dei bilanci e circa lo stimabile sviluppo della società, occultando la fittizietà di una serie di operazioni.

Nelle sentenze di merito si registra, pertanto, uno scarto rilevante tra situazione accertata in concreto, che attiene a una fattispecie commissiva, e impostazione dogmatica, completamente sbilanciata sul concorso per omissione e sulla individuazione di una posizione di garanzia in capo ai revisori (con scarsa attenzione alla effettiva sussistenza di poteri impeditivi). Ne consegue che la puntuale e incisiva disamina svolta dai ricorrenti sul tema del concorso per omissione nei reati propri è sicuramente confacente all’impianto teorico esposto nella sentenza impugnata (e quindi doverosa in ottica difensiva), ma, al medesimo tempo, finisce per non attagliarsi alle caratteristiche del fatto concreto.

…Rapporto tra gli artt. 2621 e 2624 cod. civ.

Coglie, invece, nel segno il motivo del ricorso che si incentra sui rapporti tra art. 2621 e art. 2624 cod. civ.

A ben vedere la condotta materiale accertata dai giudici di merito a carico degli imputati si sostanzia (impregiudicato l’elemento soggettivo) nell’elemento materiale tipizzato dall’art. 2624 cod. civ. (reato non contestato e da anni ormai prescritto). La fattispecie del falso nelle relazioni dei revisori non ha attinenza né con l’art. 2621 cod. civ. né con l’art. 223 comma secondo, n. 1, LF, e, per tale ragione, non può ex se rappresentare una modalità di concorso nei ridetti reati propri, pena la torsione dei principi di legalità e di tipicità.

Come nota autorevole dottrina, nel delineare le fattispecie di bancarotta impropria il legislatore ha inteso rafforzare l’imposizione di particolari doveri, correlati a penetranti poteri, posti dalla normativa civilistica a carico di determinati soggetti per la tutela dell’impresa individuale o della società, dei soci e dei creditori sociali. E, in tale ottica, ha tenuto conto della somma dei poteri che si concentrano nell’organo interno di gestione (che governa i meccanismi societari, è informato delle notizie più riservate, ha accesso alle fonti di finanziamento, domina le attività patrimoniali, effettua le scelte operative, ecc.) e in quello, sempre interno, di controllo (eletto dalla stessa maggioranza assembleare che esprime gli amministratori, vale a dire i soggetti la cui attività è assoggettata al controllo). A tutto ciò il revisore, figura esterna agli organi societari, rimane estraneo (soprattutto nel sistema precedente alla riforma del 2010).

Quanto precede non esclude che il revisore possa fornire il proprio apporto all’autore qualificato nella commissione del reato di falso in bilancio (ad esempio assicurando allo stesso una relazione positiva) e, conseguentemente, di quello di bancarotta societaria; tuttavia, si tratta di concorso che passa attraverso le ordinarie forme di cui all’art. 110 cod. pen. (e relativi oneri probatori) e non attraverso una non consentita combinazione di altre norme incriminatrici, foriera di inammissibili scorciatoie probatorie.

In particolare, nel caso di concorrente morale, il contributo causale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso), che impongono al giudice di merito un obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101).

Nel caso in rassegna le sentenze di merito sono dotate di un’ampia ed esaustiva esposizione degli elementi di prova raccolti – non suscettibile di ulteriore arricchimento – dalla quale non emergono concreti elementi a sostegno di un contributo partecipativo dei revisori nel reato proprio di amministratori (se non come cenni meramente assertivi a una “inevitabile collusione“); d’altronde il tentativo di costruire un concorso per omissione non avrebbe avuto ragion d’essere se fossero state disponibili prove di un accordo preventivo tra amministratori e revisori.

Discende che l’annullamento va disposto senza rinvio perché un eventuale giudizio di rinvio, data la esaustiva disamina del materiale acquisito utilizzato nei pregressi giudizi di merito (puntualmente ripercorso nella sentenza di primo e sinteticamente ricordato), non potrebbe in alcun modo colmare la situazione di vuoto probatorio storicamente accertata (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100).