Distruzione dei supporti contenenti la registrazione di conversazioni intercettate: parametri legittimanti e poteri del giudice (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 26016/2022, udienza del 25 maggio 2022, si è soffermata sui parametri che legittimano l’accoglimento della richiesta di distruzione, ex art. 269, comma 2, cod. proc. pen., dei supporti contenenti la registrazione di conversazioni oggetto di intercettazione.

Vicenda giudiziaria

Con ordinanza del 5 dicembre 2018 il GIP del Tribunale di Gorizia ha rigettato l’istanza, proposta dal locale Procuratore della Repubblica, intesa alla distruzione dei supporti inerenti alle operazioni di intercettazione eseguite nell’ambito di un procedimento archiviato con provvedimento del 16 marzo 2010.

In proposito, ha rilevato che — carente ogni opportuna specificazione in ordine all’inutilità di tutte le intercettazioni espletate o di parte di esse — la ricorrenza delle condizioni indicate dall’art. 269 cod. proc. pen. non consegue, in via automatica, alla disposta archiviazione del procedimento nell’ambito del quale sono state disposte, residuando «l’interesse pubblicistico al mantenimento delle intercettazioni, anche in ragione della possibilità che le indagini vengano riaperte e del potenziale utilizzo dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui sono state disposte nel caso in cui risultino indispensabili all’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (art. 270 c.p.p.)».

Ricorso per cassazione

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gorizia propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce l’abnormità dell’ordinanza impugnata che «per la singolarità della sua motivazione, si pone al di fuori del sistema organico della legge processuale e determina una paralisi della specifica procedura attivata risolvibile solo con la

sua rimozione».

Rileva, sotto un primo aspetto, che l’inutilità delle intercettazioni di cui ha chiesto la distruzione discende, per tabulas, dall’avvenuta archiviazione del procedimento in cui sono state eseguite, essendo del tutto evidente che una simile decisione è stata assunta proprio, o anche, perché il loro contenuto non è stato ritenuto probatoriamente idoneo in vista dell’esercizio dell’azione penale.

Tanto, con riferimento all’intero corpo delle intercettazioni, non emergendo la necessità di distinguerle ed indicare, per ciascuno dei supporti, delle utenze interessate o delle conversazioni, le ragioni della loro inutilità.

Da un diverso punto di vista, eccepisce che l’esito della richiesta di distruzione non può essere condizionato dall’eventualità, sempre incombente, di una riapertura delle indagini o dell’impiego delle intercettazioni in altro procedimento che, a rigore, precluderebbe, in concreto, l’operatività della disciplina dettata dall’art. 269, comma 2, cod. proc. pen.

Aggiunge, a quest’ultimo riguardo, che il decorso, a far data dalla disposta archiviazione, di oltre nove anni, senza che, medio tempore, siano emersi elementi idonei ad una rivalutazione dei fatti o che le informazioni acquisite tramite le intercettazioni siano state utilizzate in diversi contesti procedimentali, rende astratta e congetturale l’ipotesi prospettata dal GIP il quale, peraltro, ha omesso di valutare, ai fini del decidere, il pur rilevante profilo della maturazione dei termini di prescrizione del reato oggetto del procedimento.

La decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è fondato e merita, pertanto, accoglimento, sia pure in esito ad un percorso argomentativo parzialmente diverso da quello seguito dal ricorrente.

La giurisprudenza di legittimità, impegnata, in assenza di espresse indicazioni normative, nell’individuazione dei tratti costitutivi dell’atto processuale abnorme, ha da tempo chiarito che «È affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite», ed aggiunto che «l’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo» (Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094; Sez. 2, n. 2484 del 21/10/2014, dep. 2015, Rv. 262275; Sez. 2, n. 29382 del 16/05/2014, Rv. 259830).

Nel caso di specie, non ricorrono le condizioni perché l’atto sia considerato abnorme, costituendo esso, per un verso, espressione del potere decisorio riservato al giudice sulla richiesta di distruzione della documentazione inerente alle conversazioni registrate e non determinandosi, per altro verso, per effetto del disposto rigetto, la paralisi del processo.

L’art. 269, comma 2, cod. proc. pen. prevede, infatti, che la richiesta di distruzione avanzata dai soggetti interessati — categoria cui appartiene sicuramente il PM — venga vagliata dal giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione, il quale è chiamato a verificare se la

documentazione sia o meno necessaria per il procedimento.

La relativa decisione viene adottata, secondo quanto stabilito dall’ultimo periodo dell’art. 269, comma 2, cod. proc. pen., «in camera di consiglio a norma dell’articolo 127».

Ora, dal riferimento alla disposizione codicistica dedicata al «procedimento in camera di consiglio», non corredato da ulteriori specificazioni, discende l’applicabilità al procedimento innescato dalla richiesta di distruzione di tutte le previsioni — nei limiti, ovviamente, della compatibilità — contenute nell’art. 127 cod. proc. pen. che, al comma 7, assegna alle parti, alle altre persone interessate ed ai difensori la facoltà di proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa all’esito della camera di consiglio partecipata.

Tanto basta, da un canto, ad escludere che la decisione qui impugnata abbia determinato la denunciata stasi ed a rendere ammissibile, dall’altro, l’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica.

Le doglianze articolate dal ricorrente appaiono meritevoli di accoglimento.

La delibazione del giudice sulla richiesta di distruzione dei supporti informatici delle espletate intercettazioni è, invero, circoscritta, per espressa previsione normativa, alla necessità della documentazione per il procedimento ed alla funzionalità della distruzione alla tutela della riservatezza.

Nella fattispecie — a fronte delle, più che ragionevoli, considerazioni svolte dal PM istante, che fanno leva sull’esito del procedimento, da lungo tempo archiviato, e sull’estinzione per prescrizione dei reati ipotizzati — il GIP ha opposto rilievi apparentemente eccentrici rispetto al sistema normativo.

Ha, in particolare, stigmatizzato l’omessa, specifica indicazione delle intercettazioni da distruggere e delle motivazioni che giustificano il giudizio di inutilità, in tal modo illogicamente imponendo all’organo requirente un onere ulteriore rispetto alla generica, ed onnicomprensiva, indicazione del complesso dei supporti, relativi a conversazioni rivelatesi non idonee a giustificare l’esercizio dell’azione penale in ordine ai reati oggetto di provvisoria contestazione.

Sotto altro aspetto, ha ricollegato il rigetto della richiesta di distruzione alla possibilità, del tutto ipotetica e non agganciata a concrete evenienze, che le indagini sui reati oggetto di archiviazione siano riaperte ovvero che gli elementi tratti dalle espletate operazioni di intercettazione siano utilizzati, ai sensi dell’art. 270 cod. proc. pen., nell’ambito di diversi procedimenti per reati per i quali l’arresto in flagranza sia obbligatorio.

Coglie nel segno, sotto questo versante, il PM ricorrente laddove evidenzia che, laddove si muovesse da tale prospettiva, confinata sul piano dell’astratta possibilità, si dovrebbe paradossalmente giungere a stimare, in tangibile contrasto con la ratio dell’art. 269, comma 2, cod. proc. pen., la necessità di mantenere i supporti sine die.

Le precedenti considerazioni impongono, in conclusione, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al GIP del Tribunale di Gorizia in vista di un nuovo giudizio sulla richiesta di distruzione che, libero nell’esito, si attenga ai principi sopra affermati.