Un versamento simbolico può essere sufficiente per la riabilitazione?
La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 19784/2024 ha stabilito che. in tema di riabilitazione, l’elemento ostativo dell’inadempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato presuppone che ne sia accertata la volontarietà rispetto ad un debito liquido ed esigibile, non potendo avere rilievo né il mancato risarcimento necessitato, né quello comunque ascrivibile a situazioni non addebitabili al condannato.
Fattispecie relativa a condannato per delitti i materia di stupefacenti, la cui richiesta di riabilitazione, accompagnata dalla prova del versamento di € 500 effettuato in favore di un’associazione dedita al recupero dei tossicodipendenti, era stata rigettata a cagione della ritenuta esiguità della somma, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento reiettivo rilevando che, in assenza di persone offese e di richieste risarcitorie avanzate da enti esponenziali, il giudice – come, peraltro, espressamente richiestogli dal condannato – avrebbe dovuto fornire indicazioni sulla somma da ritenersi congrua, così da consentire al condannato l’integrale risarcimento.
Fatto
Integrando quanto già esposto in parte narrativa, può precisarsi come S., condannato per i reati ex artt. 73 e 74 d.P.R. 09 ottobre 1990, n. 309, abbia effettuato – a titolo risarcitorio – un bonifico dell’importo di euro cinquecento, in favore di una comunità terapeutica; ciò fatto, il ricorrente ha domandato la riabilitazione.
Il magistrato di sorveglianza ha disatteso la richiesta, ritenendo esiguo l’importo del versamento effettuato quale risarcimento.
S. si è quindi rivolto al Tribunale di sorveglianza, domandando una quantificazione equitativa della somma da versare a titolo di risarcimento; da ciò, il provvedimento ora impugnato.
Decisione
Il principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di riabilitazione è nel senso che la quantificazione del danno – magari in via approssimativa e, comunque, equitativa – rappresenti una precondizione essenziale, perché possa essere effettuato il relativo adempimento a fini risarcitori (tale regola ermeneutica si trova enunciata già da Sez. 1, n. 80 del 14/01/1992, Rv. 189605 – 01, a mente della quale: «In tema di riabilitazione, per potersi valutare il mancato risarcimento dei danni a favore della parte offesa, o comunque l’omessa tacitazione delle sue ragioni creditorie, alla stregua di un elemento condizionante la concessione della riabilitazione, occorre accertare se il debito sia liquido ed esigibile, se vi sia stata quantificazione di esso da parte del creditore, se, in sintesi, l’inadempimento sia stato volontario o non già, per qualsiasi ragione, necessitato, dalla constatata povertà del debitore, dalla inesistenza di richieste risarcitorie da parte del creditore, dalla impossibilità di quantificare il danno nel silenzio della sentenza o da altri elementi capaci di incidere sulla volontarietà dell’inadempimento in questione»).
Vero poi che l’offerta di una somma manifestamente e macroscopicamente inferiore, rispetto all’entità del danno cagionato con il reato per il quale si invoca l’applicazione dell’istituto della riabilitazione, deve essere automaticamente dichiarata inidonea (si veda, sul punto specifico, il dictum di Sez. 1, n. 7752 del 16/11/2011, dep. 2012, Rv. 252413 – 01, che ha così statuito: «In tema di riabilitazione, l’offerta di una somma manifestamente inferiore all’entità del danno dichiarato dalla parte lesa non può essere ritenuta 3 idonea a configurare una volontà di ristoro e di eliminazione delle conseguenze derivate dai reati commessi, soprattutto quando le condizioni economiche del condannato possano consentirgli di provvedere al risarcimento in maniera maggiormente adeguata anche se non necessariamente integrale».
Nello stesso senso, più recentemente, si è espressa Sez. 1, n. 17636 del 19/02/2019, Rv. 275382 – 01, secondo la quale: «In tema di riabilitazione, l’offerta di una somma manifestamente inadeguata rispetto al danno subito dalla parte lesa, anche se non costituita in giudizio, non può essere ritenuta idonea a configurare una volontà di ristoro e di eliminazione delle conseguenze derivate dal reato, soprattutto quando le condizioni economiche del condannato possano consentirgli di provvedere al risarcimento in maniera maggiormente adeguata anche se non necessariamente integrale»).
Tali indicazioni nomofilattiche, però, non confliggono con il principio di carattere generale sopra ricordato, che rappresenta l’architrave dell’impostazione concettuale che si va dipanando; la quantificazione del danno, infatti, pur se compiuta in via equitativa e indicativa, costituisce sempre la precondizione dell’applicazione dell’istituto, così precedendo il tema della concreta possibilità per il condannato di adempiere (si veda anche Sez. 1, n. 23359 del 11/05/2018, Rv. 273143 – 01, secondo la quale: «In tema di riabilitazione, l’assenza di reddito del condannato costituisce un’ipotesi di rimozione del limite alla concedibilità del beneficio, valutabile ai sensi dell’art. 179, comma 6, n. 2, cod. pen., in quanto tale circostanza giustifica l’inadempimento delle obbligazioni civili da reato»).
Occorre allora richiamare e ribadire l’interpretazione – risalente ma mai minimamente rivisitata, dalla giurisprudenza della cassazione- resa da Sez. 1, n. 4429 del 16/06/2000, Rv. 217240 – 01, secondo la quale: «In tema di riabilitazione, l’impossibilità, per il condannato, di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato ricorre non solo nell’ipotesi di insolvibilità, ma anche in tutte le situazioni, a lui non addebitabili, che comunque gli impediscano l’adempimento» (si veda anche Sez. 1, n. 4089 del 07/01/2010, Rv. 246052 – 01, che ha chiarito come l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato, la cui prova grava sul condannato, non rivesta valenza ostativa, rispetto all’applicazione dell’istituto della riabilitazione; ciò tanto al ricorrere di una situazione di radicale impossidenza economica, quanto in presenza di situazioni oggettivamente valutabili, che si rivelino concretamente atte a impedire l’adempimento).
La mancata quantificazione del danno, dunque, integra una di quelle situazioni di fatto idonee a impedire il risarcimento, costituendo, peraltro, un fatto non riconducibile alla sfera volitiva del condannato istante.
La pur non rigida determinazione dei parametri economici ai quali attenersi, in sede di soddisfacimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, non può che restare a carico del giudice, laddove questi sia chiamato a pronunciarsi in ordine alla concedibilità della riabilitazione.
Il giudice stesso è tenuto infatti a fornire – se non una determinazione rigorosa e puntuale “in positivo” – quantomeno una indicazione “in negativo“, ossia a chiarire almeno le ragioni in base alle quali un dato versamento, effettuato a titolo risarcitorio, venga valutato in termini di insufficienza.
Così compiuta la corretta esegesi della norma e applicando i principi sopra fissati, la motivazione dell’avversato provvedimento non può che essere ritenuta incompleta, proprio in punto di omessa indicazione delle ragioni specifiche della ritenuta inadeguatezza della somma versata e quindi, indirettamente, di determinazione – almeno in negativo – di quella ritenuta astrattamente congrua.
Pur non gravando sul giudice della riabilitazione il compito di indicare con precisione l’entità economica del danno risarcibile, rientra però nell’ambito della valutazione allo stesso demandata, l’indicazione almeno delle ragioni in forza delle quali la somma, versata dal condannato (nel caso di specie, trattasi, come detto, di cinquecento euro) non possa essere reputata congrua.
Compito di motivazione che diviene viepiù necessitato, a fronte di una precisa istanza in tal senso proveniente dall’interessato, oltre che in ragione della tipologia di delitto per la quale è intervenuta la condanna relativamente alla quale viene domandata la riabilitazione.
Nella concreta fattispecie, infatti, l’istanza di riabilitazione attiene a una condanna per violazione della normativa sugli stupefacenti, in ordine alla quale non risulta che il riabilitando abbia ricevuto richieste, eventualmente concernenti il ristoro delle spese sostenute dagli enti a ciò preposti, per gli interventi di recupero dei tossicodipendenti.
La difficoltà di quantificazione del danno, inoltre, non può che esser stata aggravata dall’assenza di richieste specifiche da parte dell’ente locale, nonché dalla inevitabile difficoltà di specificazione dell’entità del pregiudizio (patrimoniale o non) subito dalla collettività (una difficoltà derivante, in via immediata, appunto dalla non identificabilità di tale pregiudizio con un danno specifico, cagionato direttamente dalla condotta criminosa).
Alla luce delle considerazioni che precedono, l’ordinanza impugnata viene annullata, con rinvio al Tribunale di sorveglianza competente per nuovo giudizio.
