Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 17511/2024, udienza del 6 marzo 2024, ha affrontato il tema delle cosiddette mafie delocalizzate.
Ricorso per cassazione
Il ricorrente contesta i connotati ndranghetisti dell’associazione creata in Trentino richiamando i più recenti criteri enunciati nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 15887 del 03/03/2022) secondo i quali occorrerebbe dimostrare che tale struttura abbia “speso” la fama criminale ereditata dalla casa madre, la cosca di [segue l’indicazione della località, ubicata nel territorio calabrese].
Sostiene che la sentenza impugnata non ha esaminato tale aspetto, e prima ancora quello della qualificazione dell’insediamento in Trentino come “mafia storica” ovvero cd. mafia delocalizzata, essendone incerti sia i referenti locali calabresi (la cosca [calabrese] ovvero altri insediamenti territoriali) sia la tipologia di collegamento con la struttura delocalizzata e non essendo, comunque, ricavabili sufficienti indici di mafiosità del gruppo calabrese operante in Trentino, che sarebbero limitati a particolari problematiche emerse nella gestione delle cave di porfido, e quindi, a tale ambiente circoscritte.
Vieppiù la sentenza impugnata sarebbe censurabile nella individuazione del contributo partecipativo del ricorrente perché non ne è dimostrata la partecipazione al clan calabrese, carenza che rende, vieppiù apparente, il riferimento all’imputato come “elemento di collegamento” fra i due gruppi.
Decisione della Corte di cassazione
La giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto, con riferimento alla individuazione degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis, cod. pen., e alla configurabilità del reato associativo di tipo mafioso o ndranghetista con riguardo a cellule di associazioni di tipo mafioso operanti a livello locale, variamente denominate, che, in quanto articolazione di un sodalizio criminale mafioso preesistente, il gruppo costituito a livello locale era ex se sussumibile nel paradigma di cui all’art. 416-bis cod. pen., anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice quando ne emergeva il collegamento con la casa madre e l’adozione di un comune modulo organizzativo (distinzione dei ruoli; rituali di affiliazione; imposizione di rigide regole interne; sostegno ai sodali in carcere, per limitarsi a quelli maggiormente evidenti) che denotassero i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando presagire il pericolo per l’ordine pubblico. Il tema della esteriorizzazione del metodo mafioso – sul quale insiste, anche con diffusi riferimenti giurisprudenziali il ricorso – era stato piuttosto controverso nella giurisprudenza di legittimità e si era posto sia con riferimento al fenomeno cd. delle nuove mafie che alle cellule associative di mafie storiche radicatesi in ambienti lontani e diversi da quelli tradizionali.
La questione giuridica è stata risolta nel senso che la “concreta”, e non solo potenziale, capacità di intimidazione del sodalizio di stampo mafioso, costituisce pacificamente requisito intrinseco ed ineliminabile rispetto alla stessa possibilità di inquadrare un fatto associativo in seno al paradigma delineato dall’art. 416-bis, cod. pen., cosicché la differente declinazione della questione relativa alla esteriorizzazione del metodo mafioso va, in realtà, semplicemente ricondotta alla due distinte forme con cui l’esperienza giudiziaria ha evidenziato il manifestarsi all’esterno del citato fenomeno della delocalizzazione.
Più precisamente, qualora il nuovo aggregato si caratterizzi come un fatto autonomo ed originale, pur proponendosi di mutuare dalle mafie “storiche” i moduli organizzativi ed operativi che delle stesse sono proprie, dovrà essere necessariamente acquisita ex novo la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie prevista e punita dall’art. 416-bis, cod. pen. e, quindi, anche, della manifestazione all’esterno della capacità d’intimidazione propria del metodo mafioso: un principio, questo, affermato, come si è detto, proprio con riferimento alle cd. nuove mafie.
Per contro, ove si sia in presenza, come nel caso in esame, dell’articolazione periferica di una mafia tradizionale, “in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre“, sarà sufficiente la dimostrazione di univoci elementi significativi dell’anzidetto collegamento, funzionale ed organico, perché l’organismo delocalizzato sia percepito come proiezione dell’associazione base, conosciuta e riconosciuta per la forza criminale di cui è portatrice e concreta espressione.
È solo il caso di aggiungere che il collegamento funzionale ed organico con la casa-madre di cui si è appena detto, secondo la giurisprudenza, oltre ad essere oggettivo, deve essere percepibile all’esterno e, come tale, all’esterno riconoscibile, solo così essendo possibile pervenire a quella che si è precedentemente definita la proiezione della capacità intimidatoria dell’associazione base: a significare, cioè, l’irrilevanza di una relazione fra i due organismi che rimanga circoscritta in seno agli interna corporis della consorteria che ne rappresenta la mera filiazione. Il che risulta in linea con la più accreditata tesi dottrinaria, che configura il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso come reato a struttura mista, onde rimarcare l’esigenza di un elemento ulteriore, rispetto al mero dato dell’organizzazione di una pluralità di persone accomunate dalla volontà di perseguire le finalità illecite indicate dalla norma, che segna la differenziazione di detta ipotesi criminosa dal delitto associativo puro.
Da qui, in definitiva, la conclusione che l’associazione di tipo mafioso ha natura di reato di pericolo in quanto già la mera esistenza del sodalizio pone di per sé a rischio i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice, con particolare riguardo all’ordine pubblico, all’ordine economico ed alla libera partecipazione dei cittadini alla vita politica, ma ciò non consente di ritenere sufficiente ad integrare il reato la mera capacità potenziale del gruppo criminale di esercitare la forza intimidatoria, occorrendo invece che il sodalizio faccia effettivo, concreto, attuale e percepibile uso – ancorché non necessariamente con metodi violenti o minacciosi – della suddetta forza. (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Rv. 279555).
Il ricorrente ha contestato che, nel caso in esame, l’esteriorizzazione del metodo mafioso, ove si ritengano provate condotte violente, fosse generalizzata e incidente sul territorio di riferimento trattandosi di condotte riconducibili al settore di attività, la gestione di cave di porfido, di alcuni dei ricorrenti.
Anche tale approccio si rivela, tuttavia, riduttivo ed è stato affrontato nella giurisprudenza di legittimità che ha escluso, soprattutto affrontando la questione in relazione alle cd. nuove mafie, di matrice straniera, che, ai fini della configurabilità del reato associativo sia necessaria l’estrinsecazione del metodo mafioso attraverso l’indiscriminato controllo del territorio sul quale operano, ritenendo viceversa sufficiente che tali gruppi siano in grado di esercitare la forza di intimidazione nei confronti degli appartenenti ad una comunità etnica ivi insediata, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione che promana dal vincolo associativo (Sez. 6, n. 37081 del 19/11/2020, Rv. 280552).
Per completare il quadro di riferimento giurisprudenziale in materia, tenuto conto delle particolarità che emergono dalla concreta vicenda in cui viene chiamata in causa l’appartenenza del ricorrente al clan calabrese, va altresì precisato che anche il tema della valenza dell’affiliazione ad un’associazione di tipo mafioso – oggetto di problematica interpretazione ai fini della ricostruzione del contributo partecipativo – è stato affrontato e deciso dalle Sezioni unite penali che hanno affermato che la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua ‘messa a disposizione’ in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, Rv. 281889).
Con riferimento alla portata dell’affiliazione si è precisato che l’affiliazione rituale può costituire grave indizio della condotta partecipativa, ove la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime d’esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione. Anche in caso di affiliazione rituale la verifica del giudice passa attraverso la valutazione di indici quali la qualità dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la serietà del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali, con riferimento, tra l’altro, ai poteri di chi propone l’affiliando, di chi lo presenta e di chi officia il rito, la tipologia del reciproco impegno preso e la misura della disponibilità pretesa od offerta: una valutazione, dunque, in concreto, che consente di materializzare il concetto di “messa a disposizione”.
In sintesi, deve affermarsi che ai fini della configurabilità del reato associativo di cui all’art. 416-bis, cod. pen. non può prescindersi, ricorrendo a forme di automatismo probatorio, nel caso di cd. mafia delocalizzata, dall’accertamento del collegamento funzionale ed organico con la casa-madre che non solo deve essere oggettivo ma deve essere percepibile, e, dunque, come tale, riconoscibile all’esterno.
Non è, viceversa, necessario né che tale struttura sia o meno dotata di autonomia organizzativa né che l’estrinsecazione del metodo mafioso sia di vastità tale da interessare l’intero territorio nel quale il gruppo mafioso si sia insediato – sia esso vasto o di più ridotte dimensioni – purché la nuova struttura svolga un’attività destinata ad “occupare” aree produttive e di mercato, inquinando il relativo tessuto sociale-economico e sia mossa dalle stesse logiche dell’associazione di riferimento; il suo modulo organizzativo replichi i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando presagire il pericolo per l’ordine pubblico; vi sia dotazione di mezzi idonei a sprigionare nel nuovo contesto una forza intimidatrice propria, dotata di effettività e obiettivamente riscontrabile.
