Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 425/2024, udienza del 23 novembre 2023, ha ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni unite, secondo il quale le ordinanze inoppugnabili e quelle impugnabili, qualora non siano state impugnate o si siano esauriti i diversi gradi di impugnazione, acquistano la caratteristica dell’irrevocabilità che, pur non essendo parificabile all’autorità di cosa giudicata, parimenti porta seco il limite negativo della preclusione, nel senso di non consentire il bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione.
Vicenda giudiziaria e ricorso per cassazione
Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di Cosenza, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha accolto l’istanza avanzata nell’interesse di MM volta al riconoscimento in suo favore della continuazione in sede esecutiva tra cinque sentenze di condanna, rideterminando il trattamento sanzionatorio complessivo in anni ventotto e mesi sei di reclusione.
Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza che denuncia la violazione dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen. perché una identica precedente istanza del 2 aprile 2019 era stata già esaminata e, in parte accolta, dal Tribunale di Cosenza con ordinanza in data 9 dicembre 2019, sicché non poteva essere pedissequamente riproposta e la violazione dell’art. 671 cod. proc. pen. perché la richiesta di continuazione tra i reati giudicati con le sentenze sub c) e d) era stata esclusa dal giudice di merito.
Decisione della Corte di cassazione
Secondo una autorevole e consolidata giurisprudenza, la possibilità di revocare (o modificare) le ordinanze è limitata alle ipotesi di provvedimenti cautelari, interinali, di sorveglianza e di esecuzione emessi sulla base della clausola rebus sic stantibus: «le ordinanze inoppugnabili e quelle impugnabili, qualora non siano state impugnate o si siano esauriti i diversi gradi di impugnazione, acquistano la caratteristica dell’irrevocabilità che, pur non essendo parificabile all’autorità di cosa giudicata, parimenti porta seco il limite negativo della preclusione, nel senso di non consentire il bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione» (Sez. U, n. 26 del 12/11/1993 – dep. 1994, Galluccio, Rv. 195806).
Del resto, è indubbio che nel procedimento di esecuzione opera il principio della preclusione processuale derivante dal divieto del bis in idem, nel quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, s’inquadra la regola dettata dal comma 2 dell’art. 666 cod. proc. pen., che impone al giudice dell’esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui «medesimi elementi», di altra già rigettata (tra le tante, Sez. 1, n. 3736 del 15/1/2009, Rv. 242533).
Con tale limite si è inteso creare, per arginare richieste meramente dilatorie, un filtro processuale, ritenuto dal legislatore delegato necessario in un’ottica di economia e di efficienza processuale.
In questa prospettiva emerge la nozione di «giudicato esecutivo», impiegata in senso a-tecnico, per rappresentare l’effetto «auto conservativo» di un accertamento rebus sic stantibus: più correttamente la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento deve essere designata con il termine «preclusione», proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato.
Appare, quindi, un dato acquisito, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo il quale è ammissibile la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione che si fondi su nuovi elementi, allorquando la precedente richiesta sia stata respinta.
La giurisprudenza di legittimità, nel suo massimo consesso, si è, anche, occupata del mutamento di giurisprudenza; si è affermato che il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata (Cass. Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, Beschi, Rv. 246651). Si deve sottolineare, da subito, che nel caso oggetto della citata decisione (concedibilità dell’indulto per condanne subite all’estero riconosciute in Italia), la giurisprudenza era orientata in senso contrario e che la decisione delle SU, Beschi, ha costituito un radicale cambio di prospettiva nel panorama giurisprudenziale. Indipendentemente da tale considerazione, non priva di conseguenze nel caso oggetto del presente giudizio, deve essere evidenziato che la questione si era posta concretamente con riferimento ad una declaratoria di inammissibilità della richiesta di applicazione dell’indulto avanzata dal condannato e già respinta in precedenza.
Passando in rassegna alcune decisioni delle sezioni semplici, va escluso che costituisca applicazione della SU, Beschi, ci.t, la sentenza Sez. 1, n. 12955 del 12/02/2016, Rv. 267287, poiché si trattava di fare applicazione in sede esecutiva della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 concernente l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 riguardante le droghe leggere. In relazione agli elementi nuovi che giustificano la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione, vanno rammentate alcune decisioni di legittimità che ammettono la modificabilità in ogni tempo delle ordinanze assunte in sede di incidente di esecuzione (Sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, Rv. 261394; Sez. 3, n. 5195 del 05/12/2003 – dep. 2004, Rv. 227329; Sez. 3, n. 44415 del 30/09/2004, Rv. 230943).
Le decisioni sopra richiamate concernono però situazioni particolari: la prima concerne una nuova istanza di sospensione dell’ordine di demolizione, presentata da soggetti diversi dal destinatario della precedente decisione di rigetto e sulla base di elementi già esaminati dal primo giudice; la seconda concerne la deduzione dell’impossibilità tecnica o, comunque, dell’estrema difficoltà, attestata dalla perizia giurata prodotta, di procedere alla rimozione delle opere illegittime senza il pericolo di compromettere, fra l’altro, il mantenimento in sicurezza e la stabilità di quelle da conservare; la terza concerne lavori urgenti di impermeabilizzazione. Si vuole, da ultimo, sottolineare che in tutti i casi sopra riportati – ed anche in quello deciso da SU, Beschi – non erano stati assunti provvedimenti in grado di modificare od alterare la situazione soggettiva oggetto del giudizio.
Venendo al caso oggetto del giudizio, va osservato che il provvedimento assunto dal giudice dell’esecuzione non è, in effetti, stato adottato rebus sic stantibus, sicché risulta necessario, per superare la preclusione processuale, che vi siano nuovi elementi, mai prima valutati.
Né, sotto altro profilo, è ipotizzabile una “revoca” del provvedimento di unificazione dei reati ex art. 671 cod. proc. pen. — quale quello assunto dal Tribunale in data 27 giugno 2023 — perché si tratterebbe, in realtà, del rigetto dell’istanza difensiva che, invece, era stata accolta dal provvedimento oggi impugnato dal pubblico ministero.
La giurisprudenza ha affermato il principio di “non revocabilità” dei provvedimenti emessi in sede esecutiva che si pronunciano su benefici: il condiviso principio è stato affermato con riguardo a un caso concernente la richiesta di revoca di un provvedimento di revoca del beneficio della sospensione condizionale (Sez. 1, n. 50478 del 02/11/2016, Rv. 268341), evidenziando che l’accoglimento di una siffatta istanza costituirebbe, in realtà, un inammissibile provvedimento di concessione del beneficio al di fuori dei casi previsti dalla legge.
Ad analogo principio deve farsi ricorso nel caso della “revoca”, peraltro inopinatamente disposta in data 27 giugno 2023 dal Tribunale collegiale (quasi che si tratti di una impugnazione), dell’ordinanza che ha applicato la continuazione in sede esecutiva.
Non si tratta, in effetti, di un provvedimento, quello impugnato, assunto sotto la clausola rebus sic stantibus poiché esso è destinato, nel caso dell’accoglimento, a modificare la configurazione dei reati e delle pene, ovvero, nel caso di rigetto, a costituire una preclusione processuale alla riproposizione della medesima istanza.
Si è da tempo chiarito, infatti, che «allorché il provvedimento del giudice, emesso in forma di ordinanza, non decide su questioni contingenti o temporanee, sia di rito, sia di merito, ma statuisce su determinate situazioni giuridiche con carattere di definitività ed è soggetto a impugnazione, il provvedimento stesso deve ritenersi, al pari delle sentenze, irrevocabile, con la conseguenza che, essendosi esaurita con la sua emanazione la potestà decisoria, è sottratta, immediatamente o successivamente, all’organo della giurisdizione la possibilità di tornare sulla decisione assunta, salva la possibilità che la questione venga riproposta sulla base di elementi nuovi» (Sez. 1, n. 5099 del 22/09/1999, Rv. 214695).
La possibilità di “tornare sulla decisione assunta”, infatti, riguarda unicamente l’eventualità che la questione sia “riproposta” dalla stessa parte processuale che deduca elementi nuovi, non certo dalla parte che intenda sindacare la decisione che ritiene errata.
Ciò determina che, come detto, l’ordinanza di revoca del provvedimento impugnato sia priva di effetti quanto all’interesse all’impugnazione del pubblico ministero.
Venendo alla questione posta dal ricorso, è decisivo il rilievo, sviluppato dal pubblico ministero ricorrente e condiviso dal Procuratore generale, neppure contraddetto dalla difesa, secondo il quale l’istanza era già stata avanzata in precedenza e rigettata.
In effetti, il Tribunale di Cosenza, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza in data 1° giugno 2021, aveva rigettato un’identica istanza volta ad ottenere la unificazione dei reati giudicati con le sopra richiamate cinque sentenze. Tale questione ha anche formato oggetto del ricorso per cassazione, proposto dall’interessato avverso la citata decisione del giudice dell’esecuzione, che la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile (Sez. 1, n. 16335 del 16/02/2022).
L’ordinanza impugnata va, dunque, annullata senza rinvio per contrasto con la previsione dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen.
