Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 20491/2024, udienza del 9 maggio 2024, ha chiarito il rilievo delle nozioni di sottrazione e impossessamento ai fini della distinzione tra rapina impropria consumata e tentata.
Vicenda giudiziaria
Con sentenza in data 20 luglio 2023 la Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza in data 26 aprile 2022 con la quale il Tribunale di Parma aveva affermato la penale responsabilità di GP – in relazione ai reati di cui agli artt. 81 e 628 cod. pen. commessi in Parma il 30 aprile 2027 ed il 21 maggio 2017 (capi A e B) e di cui agli artt. 110, 624 cod. pen. commesso in Parma il 30 aprile 2017 (capo C) — e, esclusa la contestata recidiva, riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la continuazione tra tutti i reati contestati, lo aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia.
Ricorso per cassazione
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo, con motivo unico, l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 56, 628 cod. pen. per avere i giudici erroneamente qualificato i fatti contestati ai capi A) e B) quali rapine improprie consumate anziché tentate. Argomenta, al riguardo, la difesa del ricorrente, richiamando giurisprudenza di legittimità, che nel caso di specie l’imputato, occultando sotto i propri indumenti i beni (nella specie bevande alcoliche) esposti sui banchi di vendita del supermercato Esselunga, avrebbe compiuto una amotio ma non una “sottrazione” dei beni stessi, essendo stato sottoposto alla costante vigilanza da parte degli incaricati dell’esercizio commerciale e bloccato prima di varcare l’uscita dello stesso.
Decisione della Corte di cassazione
Deve innanzitutto evidenziarsi che non sono in contestazione le modalità di consumazione dei fatti di cui ai capi A) e B), così come dettagliatamente ricostruiti in sentenza dai giudici di merito – ivi compreso anche l’uso di violenza nei confronti degli addetti all’esercizio commerciale – ma solo la loro qualificazione giuridica.
Appare doveroso rilevare in punto di fatto che, come emerge dalla sentenza impugnata, l’imputato in entrambi gli episodi in contestazione, dopo aver prelevato la merce dai banchi di vendita ed averla occultata sotto i capi di abbigliamento, all’atto dei controlli aveva già superato le casse dove si effettua il pagamento: nel secondo caso (capo B) si precisa che il ricorrente aveva usufruito del varco per l’uscita senza acquisti” e sulla base di quanto riferito dal teste T. era anche “già uscito dalla porta … era già uscito dal magazzino … giunto all’uscita nella quale era posizionata una guardia giurata aveva spintonato questa guardia e poi era andato via”.
Il ricorso non è fondato.
È innanzitutto indubbio e non contestato che l’imputato abbia quantomeno compiuto atti idonei e univocamente diretti ad impossessarsi dei beni presenti nel supermercato ed abbia poi usato violenza sugli addetti alla vigilanza allo scopo di procurarsi l’impunità.
La questione si pone allora sulla disamina del rapporto tra i concetti di “sottrazione” e di “impossessamento” e sulla loro rilevanza ai fini di valutare se il reato di rapina (impropria) possa ritenersi consumato o sia rimasto al livello di mero tentativo.
La giurisprudenza di legittimità (v. Sez. U, n. 34952 del 19.4.2012, Rv. 253153; in senso conforme anche Sez. 2 n. 15584 del 12/02/2021, Rv. 281117) ha avuto modo di osservare che, poiché il comma secondo dell’art. 628 cod. pen. fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, deve ritenersi che il delitto di rapina impropria si perfeziona anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per breve tempo, della disponibilità autonoma dello stesso.
È configurabile, invece, il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità. La citata pronuncia delle Sezioni unite assume speciale importanza non solo per il principio appena richiamato, che ammette la configurabilità del tentativo di rapina impropria, ma anche per aver posto in chiaro un’importante differenza – quanto alla consumazione del reato – tra la fattispecie della rapina propria (art. 628 comma 1 cod. pen.) e quella della rapina impropria (art. 628, comma 2, cod. pen.).
Mentre la rapina propria si consuma (come il furto) solo quando si sono verificati sia la sottrazione della cosa mobile altrui sia l’impossessamento della stessa, la rapina impropria, invece, si consuma con la sola sottrazione della cosa, senza che occorra che si sia verificato anche l’impossessamento, il quale non costituisce elemento materiale della fattispecie criminosa ma è richiesto dalla norma incriminatrice solo come scopo della condotta (“… per assicurare a sé o ad altri il possesso …n, in alternativa a quello di procurare a sé o ad altri l’impunità.
In altri termini, per il perfezionamento della rapina impropria è sufficiente l’apprensione del bene altrui e non è necessario l’impossessamento, che, invece, postula l’acquisto del possesso sulla cosa sottratta ad altri; possesso che, secondo la stessa definizione data dall’art. 1140 c.c., consiste in una signoria indipendente e autonoma, esercitata dall’agente sulla res.
Deve a questo punto precisarsi che il controllo del personale di vigilanza non rileva al fine della sussistenza della sottrazione del bene ma incide soltanto sul conseguente momento dell’impossessamento, atteso che sotto la sorveglianza altrui ciò che viene ad essere impedita non è l’apprensione del bene ma l’acquisizione di un’autonoma disponibilità del bene.
D’altra parte, la Suprema Corte (cfr. Sez. U, n. 52117 del 17.7.2014, Rv 261186), con riferimento alla fattispecie criminosa del furto, della quale costituiscono elementi costitutivi sia l’impossessamento che la sottrazione del bene, ha affermato che la vigilanza della persona offesa o del personale incaricato della sorveglianza impedisce l’impossessamento ma non dunque la sottrazione.
Sul punto, infatti, la citata pronuncia ha chiarito che «l’impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postula il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell’agente. Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall’intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, l’incompiutezza dell’impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell’ambito del tentativo».
Parte ricorrente, invero, non pone in dubbio che non vi sia stato impossessamento ma sostiene che, per effetto della continua vigilanza degli addetti all’esercizio commerciale non si sia neppure verificata la sottrazione il che consentirebbe solo di configurare il tentativo nelle azioni di cui ai capi A e B. Il concetto di sottrazione, richiamato anche da altre norme del Codice penale, lascia peraltro intendere che sia semplicemente reciso il rapporto di detenzione altrui. Una parte della dottrina sostiene che il termine “sottrazione” di cui al capoverso dell’art. 628 dovrebbe essere interpretato in maniera estensiva e comprensiva anche dell’impossessamento della cosa, richiedendo la norma che la violenza o minaccia sia usata per conservare un possesso già in atto.
Ritiene il collegio che l’orientamento dottrinario appena indicato (confrontato anche da un giurisprudenza minoritaria) non sia condivisibile in quanto una simile interpretazione, oltre a contrastare con la chiara lettera della legge, che – come già evidenziato – distingue nettamente tra sottrazione e impossessamento, appare incompatibile con la ragione dell’incriminazione consistente nell’intento di colpire con maggior rigore fatti di violenza commessi in un momento in cui il furto non sia ancora consumato.
Calando, inoltre, i principi appena evidenziati nel caso qui in esame, non può porsi in dubbio che una sottrazione dei beni di cui ai capi A e B dell’imputazione si è concretamente realizzata in quanto al mero prelievo delle bottiglie di liquore dagli scaffali del supermercato – azione fino al quel punto assolutamente legittima – il ricorrente ha fatto seguire azioni che hanno comportato una rottura del momento detentivo da parte dei titolari dell’esercizio commerciale e ciò sia mediante l’occultamento dei beni sotto i propri capi di abbigliamento, sia attraverso il superamento delle casse per i pagamento della merce e, in almeno uno dei due casi, anche attraverso l’uscita dall’esercizio commerciale.
Corretta è, pertanto, la qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi A e B operata dai giudici di merito.
Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
