Certificato di morte: condizioni alle quali è atto pubblico (di Vincenzo Giglio)

Ricorda Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 18838/2024, udienza del 13 febbraio 2024, che l’art. 74 del D.P.R. n. 396 del 2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) stabilisce che «1. Non si può far luogo ad inumazione o tumulazione di un cadavere senza la preventiva autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile, da rilasciare in cala semplice e senza spesa. 2. L’ufficiale dello stato civile non può accordare l’autorizzazione se non sono trascorse ventiquattro ore dalla morte, salvi i casi espressi nei regolamenti speciali, e dopo che egli si è accertato della morte medesima per mezzo di un medico necroscopo o di un altro delegato sanitario; questi deve rilasciare un certificato scritto della visita fatta nel quale, se del caso, deve indicare la esistenza di indizi di morte dipendente da reato o di morte violenta. Il certificato è annotato negli archivi di cui all’articolo 10».

E bene, è evidente che la normativa richieda l’espletamento della visita — con finalità di accertare la morte, ma anche di indicare eventuali indizi di morte dipendente da reato o di morte violenta — da parte del medico necroscopo.

A tal proposito, è stato affermato che il medico necroscopo è pubblico ufficiale, in quanto agisce come delegato dell’ufficiale dello stato civile. Nella giurisprudenza di legittimità è pertanto indiscusso che il certificato redatto dal medico delegato dell’ufficiale dello stato civile è atto pubblico, perché proviene da un pubblico ufficiale e attesta fatti di sua diretta percezione, relativi all’effettività del decesso e all’esistenza di indizi di reato o comunque di violenza (Sez. 5, n. 36778 del 10/10/2006, Rv. 235011 – 01, in fattispecie in tema di attestazione, da parte di medici curanti, dell’ora e luogo del decesso di pazienti, invece non sottoposti a visita dopo la morte; la pronuncia richiamata rinvia anche a Sez. 5, 13 maggio 1998, Rv. 211363; Sez. 5, 25 gennaio 1989, Rv.181708).

Pertanto, correttamente giunge a tali conclusioni l’ordinanza impugnata, per altro distinguendo il caso del medico curante dal caso del medico necroforo.

In particolare, la dottoressa M., per i decessi indicati nell’imputazione provvisoria, non è medica curante.

E bene in ordine al momento e alle cause della morte – come risultano dall’attività sanitaria espletata prima del decesso – il certificato redatto è qualificabile come atto pubblico soltanto se il sanitario opera all’interno di una struttura pubblica e se, con tale atto, concorre a formare la volontà della P.A. in materia di assistenza sanitaria o esercita in sua vece poteri autorizzativi e certificativi: in questi casi, infatti, il medico opera come pubblico ufficiale.

Qualora invece il medico curante, nell’immediatezza dell’evento, rilasci il certificato di morte, non destinato all’utilizzazione da parte dell’ufficiale dello stato civile, egli opera come semplice esercente una professione sanitaria, essendo indifferente che egli sia anche un funzionario del Servizio sanitario nazionale.

Ne consegue che, in caso di falsità ideologica del certificato, il reato ipotizzabile è quello di cui all’art. 481 cod. pen., la cui pena edittale è preclusiva dell’applicazione di misure cautelari, anche soltanto interdittive.

Ma per le ragioni evidenziate nell’ordinanza impugnata, la dottoressa M. non era medico curante e agiva proprio concorrendo alla volontà della pubblica amministrazione.

Ne consegue, sotto tale profilo, la manifesta infondatezza della doglianza.