Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 49346/2023, udienza del 21 settembre 2023, ha chiarito quale fattispecie incriminatrice possa essere associata alla condotta di chi indossi un indumento che riproduca un’associazioni di immagini e concetti che denigri l’evento della Shoah.
Il reato contestato alla ricorrente, previsto dall’ art. 2, L. n. 205 del 1993, punisce “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654“.
Nel caso in esame, all’imputata era contestato in particolare di aver ostentato un emblema, o simbolo, proprio o usuale di una organizzazione di cui all’art. 3 L. n. 654 del 1975, ovvero di una “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi“.
Il giudice del merito ha ritenuto che la scritta Auschwitzland con l’immagine stilizzata dei cancelli del campo di concentramento non sia noto per essere un simbolo di una “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi“.
Il PM ricorrente contesta questa conclusione e sostiene che il campo di concentramento di Auschwitz sia divenuto un simbolo indiscusso dei gruppi nazifascisti che fondano la propria ideologia sull’odio razziale e sull’apologia della Shoah, ma si tratta di una affermazione piuttosto generica (quale associazione, o movimento, in particolare?) che il PM introduce nel processo senza allegare a sostegno alcun atto da cui si dovrebbe ricavare la illogicità, sotto questo profilo, della motivazione della sentenza impugnata, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
In realtà, il campo di concentramento di Auschwitz è divenuto negli anni, proprio per l’enormità dell’evento che vi è accaduto, piuttosto un simbolo delle persone o dei gruppi che rifiutano la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tende, invece, ad essere rimosso nella comunicazione pubblica dalle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi cui si riferisce il PM nel ricorso.
La stessa tesi sostenuta dalla difesa dell’imputata nel corso dell’udienza di legittimità (ovvero, che l’uso della maglietta incriminata avrebbe avuto lo scopo di criticare lo sfruttamento commerciale del dolore causato dal campo di concentramento) mostra il fastidio, di chi aderisce alla posizione politica in cui si riconosce l’imputata, per l’utilizzo ripetuto del nome e della immagine del campo di concentramento nella comunicazione pubblica, fastidio di chi preferirebbe calasse l’oblio su un luogo, ed un evento, che è quindi lontano dall’essere un simbolo di tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi.
In definitiva, la contestazione formulata dal PM all’imputata di aver ostentato un simbolo di una organizzazione avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, era fondamentalmente non corretta.
Ciò nonostante, la sentenza deve comunque essere annullata, perché, in realtà, a fronte di una contestazione di questo tipo, il giudice del merito non avrebbe dovuto limitarsi ad assolvere l’imputata, ma avrebbe dovuto verificare se il fatto non poteva essere sussunto in un’altra fattispecie penale non contestata e, all’esito di tale giudizio, pronunciare ordinanza ex art. 521, comma 2, cod. proc. pen. di trasmissione degli atti al PM per aver accertato che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio.
Infatti, la scritta ed il logo di Disneyland, modificato in quello di Auschwitzland, e con il profilo del castello delle favole modificato in quello dei cancelli del campo di concentramento, crea una associazione di immagini e concetti che è denigratoria dell’evento storico conosciuto come Shoah.
Un comportamento di questo tipo potrebbe astrattamente rientrare in quello dell’art. 604-bis, ultimo comma, cod. pen. che, nel testo modificato dall’ art. 2, comma 1, lett. i), d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21, già vigente al momento di commissione del fatto per cui si procede, punisce, in presenza di un concreto pericolo di diffusione, la cui sussistenza dovrà essere accertata dal giudice del merito, chi propaganda idee fondate “sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra“.
La diversità del fatto accertato in giudizio rispetto a quello contestato può essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione (Sez. 6, sentenza n. 43336 del 09/09/2016, Rv. 268441). Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio (Sez. 4, sentenza n. 18135 del 09/02/2010, Rv. 247534) e gli atti trasmessi al PM per l’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato dell’art. 604-bis, ultimo comma, cod. pen.
