Rebibbia, Roma, Anno Domini 2024, una luce si accende nel tetro buio dei corridoi del Nuovo Complesso.
D’un tratto, come un fulmine a ciel sereno, lo scrosciare di un applauso ed esclamazioni festose rompono la monotonia fatta di altoparlanti che urlano “tizio dall’avvocato” e tintinnii di chiavi e inferriate che si aprono e chiudono che avvolge la saletta dove gli avvocati, e stavolta anche un ufficiale giudiziario, aspettano di incontrare gli “ospiti”.
Che succede? Si chiedono sopresi gli astanti.
Appena il tempo di avanzare le ipotesi più disparate che dal corridoio prospiciente, dove usualmente si svolgono gli interrogatori, esce un gruppo di persone agghindate con abiti eleganti da cerimonia, poco consoni all’ambiente.
La curiosità aumenta fino a quando una donna non entra in saletta e chiede il permesso di poter offrire un caffè o una bibita agli sposi.
Gli sposi? Nozze in prigione? Evviva!
Appare lo sposo che raggiante bacia fugacemente un’ultima volta la sua amata e saluta emozionato l’estemporaneo pubblico di sconosciuti occasionali ricevendone gli auguri prima di riprendere il lungo corridoio che lo riporta alla sua cella mentre una scia di sorrisi e occhi lucidi di detenuti e detentori lo accompagna lungo la via del ritorno.
Il viaggio di nozze, per forza di cose, è rimandato ma il raggio di luce di una nuova famiglia che nasce, nonostante tutto, ha illuminato la giornata al Nuovo Complesso di Rebibbia.
L’amore ha dimostrato una volta di più di essere più forte delle sbarre e delle distinzioni tra detenuti e detentori, avvocati e magistrati, tutti sulla stessa barca della vita.
Ma, a quanto pare, non per il governo che, invece, sembra voler inasprire la contrapposizione tra sorveglianti e sorvegliati con la creazione del neonato Gruppo di intervento operativo (GIO) della Polizia Penitenziaria, specializzato nella protezione e tutela della sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere, debitamente equipaggiato e in grado di intervenire entro un’ora dalla richiesta. Un’arma da guerra, insomma.
Da più parti si afferma, condivisibilmente, che sarebbe stato più opportuno utilizzare quelle risorse per potenziare tutti quegli strumenti deputati a migliorare la qualità della vita carceraria, aumentare l’accesso alle misure alternative velocizzando il processo di reinserimento sociale, rafforzare, insomma, quella speranza in un futuro migliore che, come lo sposo della nostra storia, ogni persona privata della propria libertà, in cuor suo coltiva e ha il costituzionale diritto di coltivare.
Ecco, forse, invece di concentrarsi di sedare eventuali rivolte, sia fisicamente che con l’introduzione di appositi nuovi reati, sarebbe stato preferibile occuparsi di prevenirle disinnescando le situazioni di disagio dovute al sovraffollamento e alle pietose condizioni igienico sanitare e curando la disperazione derivata dalla mancanza di progettualità che, purtroppo, contraddistinguono le nostre carceri dove si è raggiunta, nel silenzio assordante dei più, la drammatica soglia di 36 suicidi dall’inizio dell’anno.
In conclusione, quindi, per non spegnere la speranza, come suggerisce la famosa canzone dei Giganti, piuttosto che munizioni mettete dei fiori nei vostri cannoni.
