La prova scientifica applicata per accertare le cause dell’innesco di un incendio (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 17550/2024, udienza del 21 marzo 2024, ripercorre l’elaborazione giurisprudenziale della nozione di prova scientifica.

L’unico motivo di ricorso intende privare di coerente sviluppo logico il ragionamento probatorio utilizzato dalla sentenza impugnata al fine di stabilire all’origine dell’incendio, sostenendo che tale dato sia in realtà rimasto incerto.

In ordine alla regola di giudizio da utilizzare in tale contesto, è stato affermato da giurisprudenza ormai risalente (Sez. 4, n. 13690 del 24/06/1986, Rv. 174512 – 01) che, nell’ambito del diritto penale, in considerazione del fine di repressione che l’ordinamento persegue, la prova non può essere identificata soltanto con quella scientifica e non può quindi essere fondata esclusivamente sulla base di una “regolarità senza eccezioni” nella successione di determinati fenomeni. Ne consegue che, al fine dell’indagine causale, possono considerarsi validi, in assenza di leggi scientifiche, i risultati di generalizzazione del senso comune, fermo restando che è doveroso da parte del giudice orientare, finché possibile, l’indagine verso una spiegazione scientifica o, comunque, statistica, esplicativa dei fenomeni.

Più di recente, sempre in tema di prova dell’origine causale di un incendio, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, del 14/06/2023, n. 31532) ha precisato che anche in relazione all’indagine volta ad individuare la specifica causa di innesco di un incendio, va fatta applicazione dei principi che, secondo diritto vivente, governano l’apprezzamento giudiziale della prova scientifica da parte del giudice di merito e che presiedono al controllo che, su tale valutazione, può essere svolto in sede di legittimità.

Nel delineare l’ambito dello scrutinio di legittimità, secondo i limiti della cognizione dettati dall’art. 609 cod. proc. pen., si è chiarito che alla Corte regolatrice è rimessa la verifica sulla ragionevolezza delle conclusioni alle quali è giunto il giudice di merito, che ha il governo degli apporti scientifici forniti dagli specialisti.

La Suprema Corte ha evidenziato, sul piano metodologico, che qualsiasi lettura della rilevanza dei saperi di scienze diverse da quella giuridica, utilizzabili nel processo penale, non può avere l’esito di accreditare l’esistenza, nella regolazione processuale vigente, di un sistema di prova legale, che limiti la libera formazione del convincimento del giudice; che il ricorso a competenze specialistiche con l’obiettivo di integrare i saperi del giudice, rispetto a fatti che impongono metodologie di individuazione, qualificazione e ricognizione eccedenti i saperi dell’uomo comune, si sviluppa mediante una procedimentalizzazione di atti (conferimento dell’incarico a periti e consulenti, formulazione dei relativi quesiti, escussione degli esperti in dibattimento) ad impulso del giudicante e a formazione progressiva; e che la valutazione di legittimità, sulla soluzione degli interrogativi causali imposti dalla concretezza del caso giudicato, riguarda la correttezza e conformità alle regole della logica dimostrativa dell’opinione espressa dal giudice di merito, quale approdo della sintesi critica del giudizio (Cass. Sez. 4, sentenza n. 80 del 17.01.2012, dep. 25.05.2012, n.m.).

Chiarito che il sapere scientifico costituisce un indispensabile strumento, posto al servizio del giudice di merito, deve rilevarsi che, non di rado, la soluzione del caso posto all’attenzione del giudicante, nei processi ove assume rilievo l’impiego della prova scientifica, viene a dipendere dall’affidabilità delle informazioni che, attraverso l’indagine di periti e consulenti, penetrano nel processo. Si tratta di questione di centrale rilevanza nell’indagine fattuale, giacché costituisce parte integrante del giudizio critico che il giudice di merito è chiamato ad esprimere sulle valutazioni di ordine extragiuridico emerse nel processo. Il giudice deve, pertanto, dar conto del controllo esercitato sull’affidabilità delle basi scientifiche del proprio ragionamento, soppesando l’imparzialità e l’autorevolezza scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo conoscenze tecniche e saperi esperienziali.

Il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito ha espresso nella sentenza impugnata. Del resto, la Corte regolatrice ha anche ribadito il principio in base al quale il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate. La Suprema Corte è, cioè, chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (cfr. Cass. Sez. 4, sentenza n. 43786 del 17/09/2010, dep. 13/12/2010, Rv. 248944; Cass. Sez. 4, sentenza n. 42128 del 30.09.2008, dep. 12.11.2008, n.m.).

E si è pure chiarito che il giudice di merito può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire.

Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Suprema Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia (o della consulenza), poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (vedi, da ultimo, Cass. Sez. 4, sentenza n. 492 del 14.11.2013, dep. 10.01.2014, n.m.).

Tanto chiarito, deve osservarsi che, con riguardo all’apprezzamento della prova scientifica, afferente specificamente all’accertamento del rapporto di causalità, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che deve considerarsi utopistico un modello di indagine causale, fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico – deduttivo, affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali. Ciò in quanto, nell’ambito dei ragionamenti esplicativi, si formulano giudizi sulla base di generalizzazioni causali, congiunte con l’analisi di contingenze fattuali. In tale prospettiva, si è chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante; e che è invece importante che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi (cfr. Cass. Sez. U, sentenza n. 30328, in data 11.9.2002, Rv. 222138). Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, cioè, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.

Con particolare riferimento alla casualità omissiva – che pure viene in rilievo nel caso di specie – si osserva poi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata “probabilità logica” (Cass. Sez. U, sentenza n. 30328, in data 11.9.2002, cit.); e che le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Rv. 248943).

Ai fini dell’imputazione causale dell’evento, pertanto, il giudice di merito deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato realizzato il comportamento richiesto all’imputato dall’ordinamento. Si tratta di insegnamento ribadito dalle Sezioni unite che si sono soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento giudiziale della causalità omissiva ed i limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (cfr. Cass. Sez. U, sentenza n. 38343 del 24.04.2014, dep. 18.09.2014, Rv. 261103).

Applicando i richiamati principi di diritto al caso in esame, deve considerarsi che le valutazioni effettuate dalla Corte di appello, sulla questione relativa all’accertamento del fattore di innesco dell’incendio dell’area a pascolo arboreo richiamato in rubrica risponde ai principi appena indicati.

Il ragionamento che si trae dalla lettura composita della sentenza del Tribunale unitamente a quella della Corte d’appello, trattandosi di cd. doppia conforme, si è mosso sul piano scientifico, mediante l’acquisizione del sapere esperto dei testi, tecnici di settore in quanto Vigili del fuoco, e, per tale via, si è data risposta a tutti i profili tecnici criticamente rilevati dal consulente della difesa. Così, anche a proposito del rilievo secondo il quale, per confermare l’autocombustione del materiale stoccato, la temperatura esterna avrebbe dovuto raggiungere i 250 gradi, che è ipotesi del tutto eccezionale, superato dal Tribunale considerando che tale ipotesi è smentita dal fatto che invece il rischio di autocombustione è tipico dell’attività di compostaggio ed in relazione allo stesso si giustificano le regole precauzionali disattese nel caso di specie; ovvero la questione relativa alla direzione del vento, asseritamente non favorevole alla tesi dell’accusa, posto che la stessa è stata superata in ragione dell’esame incrociato dei dati relativi alla direzione del vento, alla piegatura delle piante, dopo le fiamme, alle foto aeree ed ai rilievi fotografici dopo il fatto, tutti elementi che consentivano di comprendere che le fiamme si erano propagate dall’area aziendale verso la vegetazione del pascolo arborato presente nel torrente A. I cumuli di materiale non erano segregati da una congrua fascia di salvaguardia, rispetto alla vegetazione circostante; i rilievi fotografici evidenziavano un andamento dell’incendio” a calice”, che andava a stringersi nel punto di origine, coincidente con il sito operativo dell’azienda; l’incendio, dunque, aveva avuto origine dai cumuli di materiale, che i vigili del fuoco, al loro arrivo, vedevano bruciare ed i carabinieri ancora emettere fumo, e si era propagato in direzione est-nord est, in direzione del C., per essere poi estinto dall’intervento articolato di vigili del fuoco, volontari e personale dell’azienda per la parte interna. La sentenza, nel suo percorso logico, ha pure esaminato e confutato i rilievi qui riproposti. In particolare, non superava il vaglio del ragionamento statistico probabilistico la mera ipotesi che l’incendio fosse nato nella zona del pascolo arborato circostante l’azienda, perché zona di fitta sterpaglia non frequentata e rispetto alla quale non era emerso alcun indizio circa una possibile azione, dolosa o colposa, di terze persone, nulla avendo segnalato, nella relazione agli atti, i vigili del fuoco che avevano proceduto allo spegnimento. Anzi, il ragionamento probabilistico statistico conduceva a ritenere logicamente probabile che il fuoco fosse partito da un cumulo del “compost”, materiale infiammabile e per questo necessitante di specifiche precauzioni (ossigenazione, irrorazione, segregazione rispetto alla zona circostante). I Vigili del fuoco ed i Carabinieri intervenuti avevano visto il cumulo bruciare e poi fumare, il che rendeva evidente, seppure in via indiziaria, il mancato rispetto delle regole precauzionali. Gli indizi erano aggravati e confermati dal fatto che proprio l’estrema vicinanza del cumulo di compost dalla sterpaglia rendeva irrilevante la forza e la direzione del vento al momento del fatto, e dalla considerazione che non avevano preso fuoco altri cumuli del medesimo materiale, né all’interno dell’area aziendale erano stati segnalati arbusti bruciati provenienti dall’esterno, che invece avrebbero dovuto spargersi all’interno dell’area aziendale per effetto del vento e delle correnti d’aria prodotte dalle fiamme. Significativa anche la considerazione resa dal maresciallo della Forestale di L., secondo cui tutte le graminacee presenti sul perimetro dell’area di stoccaggio del compost, piante che per il calore perdono il turgore delle cellule presenti nel fusto piegandosi nel verso della direzione del fuoco, presentavano la concavità verso A., con ciò dimostrando che il fuoco era andato dall’interno dell’azienda verso l’esterno. Tutto ciò era stato confermato dai rilievi aerei che avevano mostrato l’andamento a calice dell’incendio, il cui punto più stretto risultava proprio all’interno dell’area aziendale.

Il ragionamento probatorio è pienamente rispondente al paradigma fissato dalla interpretazione resa dalla giurisprudenza di legittimità. Il motivo di ricorso appare meramente reiterativo delle ragioni già motivatamente disattese dal giudice d’appello, e comunque genericamente impostato su una logica di critica inidonea a scalfire il solido apparato motivazionale della sentenza impugnata con la quale non si confronta.

I ricorsi vanno dunque dichiarati inammissibili.