Contrordine: anche la sentenza emessa ai sensi dell’articolo 420-quater cpp è ricorribile avanti il Palazzaccio.
La Cassazione sezione 5 con la sentenza numero 20140/2024 ha stabilito che in tema di impugnazioni, la sentenza inappellabile di non doversi procedere ex art. 420-quater, cod. proc. pen. per mancata conoscenza, da parte dell’imputato, della pendenza del processo, è immediatamente ricorribile per cassazione per violazione di legge, quantomeno in relazione alla determinazione della durata delle ricerche dell’imputato, operando, in ordine al predetto provvedimento, la garanzia sancita dall’art. 111, comma 7, Cost., riguardante i provvedimenti giurisdizionali aventi natura decisoria e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni giuridiche di diritto soggettivo.
La Suprema Corte ha evidenziato la natura “bifronte” della sentenza in esame, recante, sia una pronuncia di improcedibilità virtualmente conclusiva, sia una “vocatio in iudicium” a udienza predefinita in caso di rintraccio dell’imputato.
Preliminarmente la cassazione ha affrontato la questione processuale, invero decisiva, sulla possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, prevista dall’art. 420 quater, c.p.p., di cui appare opportuno riportare integralmente il testo. “l. Fuori dei casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato.
La sentenza contiene: a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private; c) l’imputazione; d) l’indicazione dell’esito delle notifiche e delle ricerche effettuate; e) l’indicazione della data fino alla quale dovranno continuare le ricerche per rintracciare la persona nei cui confronti la sentenza è emessa; f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati; g) la data e la sottoscrizione del giudice.
Con la sentenza il giudice dispone che, fino a quando per tutti i reati oggetto di imputazione non sia superato il termine previsto dall’articolo 159, ultimo comma, del codice penale, la persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza sia ricercata dalla polizia giudiziaria e, nel caso in cui sia rintracciata, le sia personalmente notificata la sentenza.
La sentenza contiene altresì: a) l’avvertimento alla persona rintracciata che il processo a suo carico sarà riaperto davanti alla stessa autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza; b) quando la persona non è destinataria di un provvedimento applicativo della misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia in carcere per i fatti per cui si procede, l’avviso che l’udienza per la prosecuzione del processo è fissata:
1) il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se la persona è stata rintracciata nel primo semestre dell’anno;
2) il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se la persona è stata rintracciata nel secondo semestre dell’anno; c) l’indicazione del luogo in cui l’udienza si terrà; d) l’avviso che, qualora la persona rintracciata non compaia e non ricorra alcuno dei casi di cui all’articolo 420-ter, si procederà in sua assenza e sarà rappresentata in udienza dal difensore.
Alla sentenza si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 546.
Decorso il termine di cui al comma 3 senza che la persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza sia stata rintracciata, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata.
In deroga a quanto disposto dall’articolo 300, le misure cautelari degli arresti domiciliari e delta custodia in carcere perdono efficacia solo quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6.
In deroga a quanto disposto dagli articoli 262, 317 e 323, gli effetti dei provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo permangono fino a quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6″.
Orbene il tema che ci occupa è stato già affrontato in sede di legittimità, da alcuni arresti in cui è stato affermato il principio, secondo cui in tema di impugnazioni, la sentenza di non doversi procedere ex art. 420-quater c.p.p., per mancata conoscenza, da parte dell’imputato, della pendenza del processo, per il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, non è ricorribile per cassazione, fintantoché non sia spirato il termine previsto dall’art. 159, ultimo comma, c.p., trattandosi di pronunzia revocabile, di natura sostanzialmente interlocutoria, per la quale non opera la garanzia sancita dall’art. 111, comma 7, Cost., riguardante i soli provvedimenti giurisdizionali aventi natura decisoria e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni giuridiche di diritto soggettivo.
In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che all’erronea dichiarazione di assenza potrà porsi rimedio chiedendo, dinanzi al giudice che l’ha pronunciata, la revoca della sentenza emessa ex art. 420-quater c.p.p. (si vedano, in particolare, Sez. 2, n. 50426 del 26/10/2023, Rv. 285686 e Sez. 2, 9.2.2024, n. 11757, n.m.).
Nel caso esaminato il Collegio ha ritenuto di non condividere tale soluzione, per le seguenti ragioni.
Come rilevato con argomentazione condivisibile nella relazione sulla “Riforma Cartabia” a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, “del tutto inedita è la previsione contenuta nell’art. 420-quater totalmente riformulato dal legislatore delegato in attuazione dell’art. 1, comma 7, lett. e) della legge delega e con la quale viene disciplinata l’ipotesi in cui non ricorrano i presupposti per procedere in assenza e le ulteriori ricerche dell’imputato disposte dal giudice abbiano dato esito negativo.
La soluzione della sospensione del processo prevista per tale eventualità dalla L. n. 67 del 2014, la quale lasciava in una sorta di limbo tutti i processi nei quali non era possibile procedere in assenza, viene sostituita dall’art. 23 del d.lgs. n. 150 del 2022 con la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato.
Attraverso tale previsione il legislatore ha perseguito sia lo scopo di deflazione, sia quello di recuperare efficienza al sistema dal momento che tale pronuncia definisce il procedimento, evitando che esso rimanga pendente e che il giudice ogni anno debba disporre nuove ricerche dell’imputato“.
Si tratta di una sentenza in rito, che prescinde da ogni accertamento di merito e dalla verifica della eventuale sussistenza delle condizioni legittimanti l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 129, c.p.p.; inappellabile e dotata di un’efficacia preclusiva limitata, in quanto destinata ad essere revocata, sia pure entro determinati limiti temporali indicati nella sentenza stessa, quando la persona nei cui confronti è stata emessa viene rintracciata (art. 420-sexies, c.p.p.).
La sua definitività, invero, è ancorata al decorso di un temine stabilito ad hoc dal legislatore, individuato nel decorso del doppio dei termini di prescrizione previsti dall’art. 157, c.p., termine che può in concreto essere anche molto lungo e la cui previsione si giustifica al fine di evitare che l’interessato si sottragga “maliziosamente” allo svolgimento del processo.
Dunque, per quel che interessa strettamente il tema affrontato in questa sede, va ribadito che la sentenza di non doversi procedere è destinata ad essere revocata quando sia rintracciata la persona nei cui confronti è stata emessa, sempre che ciò avvenga entro il limite temporale, individuato dal comma 3 dell’art. 420-quater, c.p.p., nel doppio dei termini di prescrizione del reato, a garanzia del rispetto del quale, l’art. 420-quater, comma 2, lett. e), c.p.p., stabilisce che la sentenza debba indicare la data fino alla quale le ricerche dovranno continuare (cfr. la menzionata relazione dell’Ufficio del Massimario).
In caso contrario, vale a dire ove nell’indicato termine le ricerche disposte dal giudice non abbiano dato esito, la sentenza di non doversi procedere diventerà non più revocabile.
Preme evidenziare un aspetto sui generis della sentenza, di cui si discute, che ne evidenzia la natura complessa.
Come affermato in una recente decisione della Corte costituzionale “sostituito dall’art. 23, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 150 del 2022, l’art. 420-quater cod. proc. pen. stabilisce che, quando non ricorre un’ipotesi di assenza procedibile, né un legittimo impedimento a comparire, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo.
La trasformazione dell’assenza impeditiva da causa di sospensione del processo a fattispecie di improcedibilità si allinea alla soluzione adottata per gli infermi “eterni giudicabili” dall’art. 72-bis cod. proc. pen., inserito dalla legge n. 103 del 2017, come osservato da questa Consulta nella sentenza n. 65 del 2023, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 72-bis, comma 1, nella parte in cui si riferiva al solo stato «mentale» dell’imputato, anziché al suo stato «psicofisico».
Attesa la forma-contenuto della sentenza di cui all’art. 420-quater cod. proc. pen., recante sia una pronuncia di improcedibilità virtualmente conclusiva, sia una vocatio in iudicium a udienza predefinita per il caso di rintraccio dell’imputato, se ne sottolinea la “natura bifronte”; ambivalenza destinata tuttavia a sciogliersi con il decorso del tempo, in quanto, ai sensi dei commi 3 e 6 dello stesso art. 420-quater, nel momento in cui per tutti i reati oggetto di imputazione sia superato il termine previsto dall’art. 159, ultimo comma, del codice penale (cioè il doppio del tempo necessario a prescrivere il reato), senza che la persona nei cui confronti è stata emessa sia stata rintracciata, la sentenza di non doversi procedere diviene irrevocabile” (cfr. Corte Costituzionale, n. 192 del 27.9.2023).
Stante, dunque, la natura “bifronte” della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, che, come affermato in dottrina con annotazione condivisibile, da un lato, “chiude una regiudicanda esauritasi, ma, allo stesso tempo, costituisce l’atto propulsivo di una nuova, destinata ad aprirsi se e quando l’originario imputato sarà rintracciato”, non va sottovalutata, ad avviso della cassazione, ai fini della soluzione della questione che ci occupa, la riconosciuta natura definitoria di tale sentenza, che, per l’appunto, definisce, dunque conclude il processo iniziato con l’esercizio dell’azione penale e la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare, sul presupposto della mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato.
Natura evidenziata in un passaggio della Relazione illustrativa al decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, in cui si legge: «la pronuncia definisce il procedimento, sicché il destinatario della medesima non è più imputato e il fascicolo va specificamente archiviato per un più agevole recupero».
Proprio la funzione di definizione del processo, propria di un provvedimento potenzialmente in grado di acquisire il crisma della irrevocabilità ovvero di essere posto nel nulla attraverso il decreto di revoca previsto dall’art. 420-sexies, co. 4, c.p.p., a seconda dell’esito delle disposte ricerche ad opera della polizia giudiziaria, fa propendere per la tesi dell’impugnabilità, e, in particolare, della possibilità di impugnare la sentenza attraverso il rimedio del ricorso per cassazione, soluzione, peraltro, condivisa dalla prevalente dottrina.
All’interno di questo ibrido provvedimento giurisdizionale, infatti, convergono, in parallelo, due binari, che vanno, tuttavia, mantenuti distinti: la pronuncia di improcedibilità virtualmente conclusiva e la vocatio in iudicium della nuova ed eventuale fase processuale.
Allo stesso tempo la natura definitoria della decisione va separata dalla sua eventuale irrevocabilità, in quanto è proprio tale natura che rende la sentenza impugnabile attraverso il ricorso per cassazione, una volta esclusa dal legislatore l’impugnabilità attraverso l’appello.
Vero è che la disciplina di nuovo conio non prevede espressamente tale rimedio giurisdizionale, ma nemmeno l’esclude, dovendo trovare, pertanto, applicazione la regola di carattere generale prevista dall’art. 568, co. 2, c.p.p., secondo cui “sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28“.
Regola che rimanda, a sua volta, alla previsione costituzionale ex art. 111, co. 7, Cost., secondo cui, come è noto, contro le sentenze è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, vera e propria norma di chiusura del sistema, nel senso di condizionare la definitività dei provvedimenti a contenuto decisorio alla possibilità che contro di essi sia esperibile, come si è sottolineato, “almeno il ricorso straordinario in Cassazione” per violazione di legge.
Dovendosi intendere per sentenze, come affermato da autorevole dottrina, quei provvedimenti che abbiano un contenuto decisorio e che incidano sui diritti di libertà, patrimoniali o sulla pretesa punitiva dello Stato.
Non mancano, del resto, nella giurisprudenza di legittimità pronunce che, tenuto conto della natura decisoria del provvedimento, ne hanno riconosciuto l’impugnabilità a mezzo del ricorso per cassazione, pur nel silenzio della legge processuale.
Si è così affermato che, in tema di patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato, i provvedimenti emessi dal Tribunale o dalla Corte d’appello in sede di reclamo avverso il decreto di liquidazione del compenso al difensore sono ricorribili per cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art.111 della Costituzione, in quanto, pur non essendo formalmente qualificati come sentenze, hanno carattere decisorio e capacità di incidere in via definitiva su diritti soggettivi (cfr. Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Rv. 224610).
Ovvero, più di recente, che l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa, ex art. 411, comma 1-bis, c.p.p., a seguito di opposizione dell’indagato, è impugnabile con ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.
In motivazione, la Corte ha precisato che tale ordinanza, pur non avendo forma di sentenza, ha carattere decisorio e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni di diritto soggettivo, sicché, non essendo previsto alcun altro mezzo di impugnazione, è ricorribile per cassazione (cfr. Sez. 5, n. 36468 del 31/05/2023, Rv. 285076).
Si potrebbe obiettare, come si è obiettato, che la capacità della sentenza prevista dall’art. 420-quater, c.p.p., di incidere in via definitiva sulle posizioni delle parti private e della parte pubblica diventa effettiva solo nel momento in cui essa, decorso inutilmente il termine di cui al comma 3, non è più revocabile, rendendo definitivo il proscioglimento in rito, sicché solo a partire da questo momento, risolta una volta per tutte la natura “bifronte” della pronuncia in ragione del decorso del tempo, sarebbe esperibile il ricorso per cassazione, per evitare che alla irrevocabilità “procedimentale” della sentenza, derivante dall’esaurimento della descritta fase iniziata con la presa d’atto della mancata conoscenza del processo da parte dell’imputato, faccia seguito l’irrevocabilità “processuale”, prevista dall’art. 648, co. 1, c.p.p.
Tuttavia, ad avviso della cassazione, tale prospettiva, per certi versi condivisibile, non tiene nel dovuto conto la circostanza che, all’interno del contenuto della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, è possibile rinvenire un segmento decisorio dotato di un’immediata e concreta ricaduta sui diritti delle parti, idoneo sin da subito a incidere in via definitiva sugli interessi in gioco, perché da esse non contestabile, se non si riconoscesse loro la possibilità di impugnare la decisione quanto meno rispetto a tale profilo.
Si tratta, in particolare, del segmento relativo alla determinazione del tempo di durata delle ricerche dell’imputato, perché su di esso si fonda l’intera sequenza procedimentale, che potrebbe condurre all’impossibilità di procedere alla revoca della sentenza di cui si discute.
Ammettere il ricorso per cassazione, quanto meno nei limiti in precedenza indicati della violazione di legge, appare, peraltro una soluzione conforme ai principi costituzionali e convenzionali in materia di ragionevole durata del processo e dì efficienza della giurisdizione (cfr. artt. 111, Cost., 6, Convenzione EDU), posto che consentirebbe di mettere un punto fermo sul tempo necessario allo svolgimento delle ricerche dell’imputato, evitandone la ripetizione nel caso di epilogo decisorio rappresentato dal possibile annullamento della sentenza per erronea determinazione della durata delle ricerche, non apparendo revocabile in dubbio che in tale ipotesi esse debbano riprendere.
In tal senso, dunque, la soluzione prospettata appare in linea con le già evidenziate finalità di deflazione e di recupero di efficienza del sistema, evitando il rischio che il procedimento rimanga comunque pendente e che il giudice debba disporre nuove ricerche dell’imputato.
Laddove non sembra convincente la tesi, secondo la quale a eventuali errori commessi nella sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, che, come dimostrato dal caso in esame, possono non riguardare la dichiarazione della mancata conoscenza del processo da parte del prevenuto, si possa rimediare chiedendone la revoca al giudice che l’ha pronunciata.
Tale rimedio, infatti, risulta del tutto avulso dal sistema delineato dal legislatore, che ammette la revoca, con decreto, della sentenza solo nel caso, disciplinato dall’art. 420-sexies, c.p.p., in cui la polizia giudiziaria delegata abbia rintracciato la persona nei confronti della quale è stata emessa la sentenza di non doversi procedere e abbia provveduto agli adempimenti previsti dai primi tre commi del menzionato art. 420- sexies, c.p.p.
Appare del resto evidente come la soluzione della revoca “atipica”, prospettata in alternativa alla possibilità di ricorrere per cassazione, trovi la sua giustificazione nel convincimento che il provvedimento previsto dall’art. 420-quater, c.p.p., abbia solo gli aspetti formali della sentenza (dato incontestabile, anche alla luce dell’esplicito richiamo operato dall’art. 420-quater, c.p.p., alle disposizioni di cui all’art. 546, co. 2 e 3, c.p.p.), ma non anche il contenuto decisorio, tesi, tuttavia, che, per le ragioni già esposte.
