Rapina impropria: criteri differenziali tra fattispecie consumata e tentata (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 20491/2024, udienza del 9 maggio 2024, si è soffermata sulla rapina impropria e sulla distinzione tra fattispecie consumata e fattispecie tentata.

La giurisprudenza di legittimità (v. Sez. U, n. 34952 del 19.4.2012, Rv. 253153; in senso conforme anche Sez. 2, n. 15584 del 12/02/2021, Rv. 281117) ha ritenuto che, facendo riferimento il comma secondo dell’art. 628 cod. pen. alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, il delitto di rapina impropria si perfeziona anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per breve tempo, della disponibilità autonoma dello stesso.

È configurabile, invece, il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.

La citata pronuncia delle Sezioni unite assume speciale importanza non solo per il principio appena richiamato, che ammette la configurabilità del tentativo di rapina impropria, ma anche per aver posto in chiaro un’importante differenza – quanto alla consumazione del reato – tra la fattispecie della rapina propria (art. 628 comma 1 cod. pen.) e quella della rapina impropria (art. 628, comma 2, cod. pen.).

Mentre la rapina propria si consuma (come il furto) solo quando si sono verificati sia la sottrazione della cosa mobile altrui sia l’impossessamento della stessa, la rapina impropria, invece, si consuma con la sola sottrazione della cosa, senza che occorra che si sia verificato anche l’impossessamento, il quale non costituisce elemento materiale della fattispecie criminosa ma è richiesto dalla norma incriminatrice solo come scopo della condotta (“… per assicurare a sé o ad altri il possesso …, in alternativa a quello di procurare a sé o ad altri l’impunità.

In altri termini, per il perfezionamento della rapina impropria è sufficiente l’apprensione del bene altrui e non è necessario l’impossessamento, che, invece, postula l’acquisto del possesso sulla cosa sottratta ad altri; possesso che, secondo la stessa definizione data dall’art. 1140 c.c., consiste in una signoria indipendente e autonoma, esercitata dall’agente sulla res.

Deve a questo punto precisarsi che il controllo del personale di vigilanza non rileva al fine della sussistenza della sottrazione del bene ma incide soltanto sul conseguente momento dell’impossessamento, atteso che sotto la sorveglianza altrui ciò che viene ad essere impedita non è l’apprensione del bene ma l’acquisizione di un’autonoma disponibilità del bene.

D’altra parte, la Suprema Corte (cfr. Sez. U, n. 52117 del 17.7.2014, Rv 261186), con riferimento alla fattispecie criminosa del furto, della quale costituiscono elementi costitutivi sia l’impossessamento che la sottrazione del bene, ha affermato che la vigilanza della persona offesa o del personale incaricato della sorveglianza impedisce l’impossessamento ma non dunque la sottrazione.

Sul punto, infatti, la citata pronuncia ha chiarito che «l’impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postula il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell’agente. Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall’intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, l’incompiutezza dell’impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell’ambito del tentativo».

Il ricorrente, invero, non pone in dubbio che non vi sia stato impossessamento ma sostiene che, per effetto della continua vigilanza degli addetti all’esercizio commerciale non si sia neppure verificata la sottrazione il che consentirebbe solo di configurare il tentativo nelle condotte contestate come rapine.

Il concetto di sottrazione, richiamato anche da altre norme del Codice penale, lascia peraltro intendere che sia semplicemente reciso il rapporto di detenzione altrui.

Una parte della dottrina sostiene che il termine “sottrazione” di cui al capoverso dell’art. 628 dovrebbe essere interpretato in maniera estensiva e comprensiva anche dell’impossessamento della cosa, richiedendo la norma che la violenza o minaccia sia usata per conservare un possesso già in atto.

L’orientamento dottrinario appena indicato (confortato anche da un giurisprudenza minoritaria di legittimità) non è condivisibile in quanto una simile interpretazione, oltre a contrastare con la chiara lettera della legge, che – come già evidenziato – distingue nettamente tra sottrazione e impossessamento, appare incompatibile con la ragione dell’incriminazione consistente nell’intento di colpire con maggior rigore fatti di violenza commessi in un momento in cui il furto non sia ancora consumato.

Calando, inoltre, i principi appena evidenziati nel caso qui in esame, non può porsi in dubbio che una sottrazione dei beni di cui alle predette condotte si è concretamente realizzata in quanto al mero prelievo delle bottiglie di liquore dagli scaffali del supermercato – azione fino al quel punto assolutamente legittima – il ricorrente ha fatto seguire azioni che hanno comportato una rottura del momento detentivo da parte dei titolari dell’esercizio commerciale e ciò sia mediante l’occultamento dei beni sotto i propri capi di abbigliamento, sia attraverso il superamento delle casse per i pagamento della merce e, in almeno uno dei due casi, anche attraverso l’uscita dall’esercizio commerciale.

Corretta è, pertanto, la qualificazione giuridica dei fatti operata dai giudici di merito.