Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 17477/2024, udienza del 31 ottobre 2023, descrive sistematicamente il percorso valutativo che deve compiere il giudice a fronte di una chiamata d’accusa.
Fenomenologia delle chiamate d’accusa
…Distinzione per oggetto della chiamata
Nella chiamata d’accusa si possono considerare più distinzioni che si fondano o sull’oggetto della dichiarazione ovvero sulla fonte di conoscenza.
Nel primo caso, si distingue tra chiamata di correo o in semplice reità, a seconda che il dichiarante riferisca anche contra se (chiamata di correo in senso stretto) o solo erga alios (chiamata in semplice reità, in cui il narratore affermi fatti che involgono solo l’altrui responsabilità); esistono peraltro anche ipotesi narrative in cui la chiamata sia mista ovvero, per alcuni aspetti, assume un riferimento di correità e, per altri, solo in reità.
…Distinzione per fonte della conoscenza
Quanto alla fonte di conoscenza, può trattarsi di conoscenza diretta o indiretta.
Nell’ambito della cd. chiamata diretta, la fonte ha una cognizione specifica dei fatti attraverso una propria percezione. Il chiamante può rendere dichiarazioni auto o etero-accusatorie e rivelare, appunto, quanto abbia direttamente conosciuto, riferendo contra se o erga alios.
La forza dimostrativa della chiamata de relato si risolve, a sua volta, in un giudizio di relazione che, normalmente, deve costituire il risultato di una scrupolosa e approfondita valutazione da effettuarsi, in concreto, nell’ambito di uno specifico processo.
Valutazione della prova ispirata al principio del libero convincimento
Il principio che governa la valutazione della prova è quello del libero convincimento del giudice: la legge, infatti, non prevede alcuna gerarchia nelle fonti dimostrative, né attribuisce prevalenza all’una rispetto all’altra, affidando, invece, questo compito di valutazione e di selezione al giudice.
Statuto differenziato per la valutazione delle chiamate d’accusa
Nel tempo, la giurisprudenza di legittimità ha delineato una sorta di “statuto differenziato”, legalmente riconoscibile, per tutte le chiamate d’accusa in virtù del quale la chiamata non può essere considerata di per sé autosufficiente in chiave probatoria, ma sono necessari altri elementi che confermino la sua attendibilità ai sensi dell’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., ovvero i riscontri esterni (in tempi meno recenti, si è anche arrivati a indicare, metodologicamente, una verifica «a tre tempi», indicata da Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino, Rv. 192465: su credibilità personale, attendibilità intrinseca della dichiarazione e attendibilità estrinseca, a mezzo di riscontro cd. individualizzante).
Poi, è stato precisato che, in ogni caso, la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, non devono necessariamente essere la risultante di distinti e successivi momenti d’accertamento, non essendo prevista alcuna specifica e tassativa sequenza logico-temporale, ma possono essere scrutinate unitariamente come previsto dai comuni criteri epistemologici e non prevedendo l’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145; Sez. 1, n. 19759 del 17/05/2011, Rv. 250244; Sez. 6, n. 11599 del 13/03/2007, Rv. 236151; Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Rv. 276676).
Il momento valutativo è contrassegnato da una doppia valutazione, nel senso che occorre verificare non soltanto l’attendibilità intrinseca soggettiva e oggettiva del dichiarante in relazione al fatto storico della narrazione percepita, ma anche l’attendibilità della fonte primaria di conoscenza e la genuinità del suo narrato che integra l’elemento di prova più significativo del fatto sub iudice.
Occorre, nello specifico, proprio per il maggiore rigore valutativo imposto dalla peculiarità del caso, valutare le circostanze concrete di tempo e di luogo in cui si è verificato il colloquio tra il dichiarante e il soggetto di riferimento nonché la natura dei loro rapporti (di eventuale frequentazione e di familiarità) tra i due, così da giustificare le confidenze di particolare gravità, non certamente oggetto di una comune conversazione, tra loro. Se il dichiarante, non avendo avuto un ruolo diretto nei fatti delittuosi in contestazione, fornisce, su questi, particolari precisi e compatibili con il quadro probatorio già acquisito che risultino privi di specifiche e significative differenze, come appresi dalla fonte primaria con la quale intratteneva rapporti di frequentazione e di confidenza, in assenza di ragioni sintomatiche di una comunicazione di notizie false, può agevolmente ritenersi, per logica e in base a una consolidata massima di esperienza, la corrispondenza al vero della confidenza extraprocessuale proveniente dal soggetto di riferimento, anche se da quest’ultimo non asseverata in sede processuale.
L’operazione di valutazione finale necessita, inoltre, della ricerca di «convergenti e individualizzanti riscontri esterni in relazione al fatto che forma oggetto dell’accusa e alla specifica condotta criminosa dell’incolpato, essendo necessario per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa» (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226090).
Vige, sul tema della capacità corroborativa degli “altri elementi di prova” richiesti dall’art. 192 cod. proc. pen., il principio della “libertà dei riscontri”, nel senso che questi, non essendo predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura, potendosi comprendere le prove storiche dirette e ogni altro elemento probatorio, anche indiretto, legittimamente acquisito al processo e idoneo, anche sul piano della mera consequenzialità, a corroborare, nell’ambito di una valutazione unitaria, il mezzo di prova ritenuto ex lege bisognoso di conferma. Non è richiesto, ovviamente, che il riscontro integri la prova del fatto, giacché, se così fosse, esso perderebbe la sua funzione “gregaria” e sarebbe da solo sufficiente a sostenere il convincimento del giudice, tanto da far venire meno la necessità di utilizzare anche la prova dichiarativa soggetta a riscontro. In tale ultimo caso potrebbe essere viceversa “ribaltato” il ragionamento con il “riscontro prova del fatto” a fornire l’attendibilità del dichiarante la cui locuzione ha portato a reperire l’elemento probatorio, ricercato inizialmente quale riscontro, che da solo può sostenere la motivazione del giudice sul fatto o più genericamente sul punto oggetto di dimostrazione probatoria.
Il dato certo, evincibile da una corretta interpretazione della previsione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., è costituito dall’esigenza che i riscontri alle dichiarazioni ivi considerate devono essere caratterizzati dalla necessaria estraneità – nel senso di provenienza ab externo – rispetto alle dichiarazioni medesime, così da scongiurare una verifica tautologica, autoreferenziale e affetta dal vizio della circolarità.
Ciò posto, il riscontro estrinseco alla chiamata in correità o in reità de auditu ben può essere offerto dalle dichiarazioni, di analoga natura, rese da uno o più degli altri soggetti indicati nell’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc, pen.; qualunque elemento probatorio, diretto o indiretto che sia, purché estraneo, nel senso che derivi da fonte diversa dalle dichiarazioni da riscontrare, può essere legittimamente utilizzato a conferma dell’attendibilità delle stesse.
Occorre, tuttavia, che le ulteriori dichiarazioni accusatorie siano connotate da: a) convergenza delle chiamate in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o condizionamenti inquinanti; c) specificità, nel senso che la “convergenza del molteplice” deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia il fatto nella sua oggettività che la riferibilità soggettiva dello stesso alla persona dell’incolpato, fermo restando che deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della concordanza delle plurime dichiarazioni d’accusa sul nucleo centrale e più significativo della questione fattuale da decidere; d) autonomia “genetica”, vale a dire derivazione non da un’unica fonte, onde evitare il rischio della circolarità della notizia, che vanificherebbe la valenza dell’elemento di riscontro esterno e svuoterebbe di significato lo stesso concetto di convergenza del molteplice. Dall’esito positivo di tale delicata e complessa operazione valutativa è agevole dedurre la prova della res iudicanda (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, cit., Rv. 255143).
Ordine logico-giuridico della valutazione delle chiamate d’accusa
Costituisce, quindi, ius receptum, nell’elaborazione giurisprudenziale di legittimità, che la validazione probatoria delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia deve procedere secondo un ordine logico-giuridico che prevede, innanzitutto, la verifica della credibilità soggettiva del propalante – da compiersi in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai suoi rapporti coi soggetti accusati, nonché alle ragioni che ne hanno indotto la scelta collaborativa – cui deve seguire o, comunque, accompagnarsi la verifica dell’attendibilità oggettiva delle dichiarazioni rese, da apprezzarsi nella loro consistenza intrinseca e nelle loro caratteristiche, con riguardo alla spontaneità, all’autonomia, alla precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; dopo aver sciolto in senso positivo, alla stregua dei parametri appena indicati, il giudizio sulla credibilità del collaboratore e delle sue propalazioni accusatorie, il giudice di merito è legittimato – e tenuto – a verificare l’esistenza dei riscontri esterni, di natura individualizzante, necessari a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. (tra le tante, Sez. 2 n. 21171 del 7/05/2013, Rv. 255553; Sez. 2 n. 2350 del 21/12/2004, depositata nel 2005, Rv. 230716).
E, se per quanto riguarda il vaglio di affidabilità intrinseca del collaboratore e delle sue dichiarazioni le Sezioni unite penali hanno chiarito che il relativo percorso valutativo non deve necessariamente muovere attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del propalante e l’attendibilità oggettiva del suo narrato devono essere apprezzate unitariamente (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, cit.), il riscontro estrinseco di attendibilità prescritto dalla norma processuale di cui all’art. 192, comma 3, del codice di rito costituisce tendenzialmente l’oggetto di un momento valutativo logicamente successivo, in quanto ordinariamente non è possibile procedere a un apprezzamento unitario della propalazione accusatoria e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non sono stati chiariti gli eventuali dubbi che si addensino sulla propalazione in sé considerata, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa (Sez. 2, n. 21171 del 2013, cit.).
Non sarebbe, quindi, giuridicamente corretto sanare o supplire determinanti carenze strutturali del giudizio di affidabilità soggettiva e intrinseca della propalazione accusatoria mediante la valorizzazione degli (eventuali) elementi di riscontro estrinseco della stessa, i quali, in via ordinaria, possono – e debbono – essere apprezzati nella loro capacità di concorrere a confermarne ab externo i contenuti dichiarativi quando si sia registrato l’autonomo superamento, con esito positivo, del vaglio di credibilità soggettiva della fonte e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. Ai fini del profilo individualizzante del riscontro alla chiamata d’accusa, poi, esso deve ritenersi raggiunto allorquando non consiste semplicemente nell’oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma offre elementi che collegano il fatto alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell’attribuzione a quest’ultimo del reato contestato (Sez. 2, n. 35923, del 11/07/2019, Rv. 276744; Sez. 6, n. 4573:3 del 11/07/2018, Rv. 274151).
In conclusione del modello probatorio legale oggetto dell’esame del ricorso, va ribadito che la narrazione del collaboratore di giustizia necessita di riscontri che, come detto, possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio sia rappresentativo che logico, a condizione che possa risultare indipendente e, dunque, può essere rappresentato anche da altre chiamate in reità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che si vuole riscontrare, sempre a condizione che esso ovvero essi abbiano una valenza “individualizzante”, dovendo riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato, senza avere il carattere di prova “autosufficiente” perché, in tal caso, la chiamata non avrebbe la sua inizialmente ritenuta utilità, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non su di essa (Sez. 3 n. 44882 del 18/07/2014, Rv. 260607).
La chiamata d’accusa debitamente scrutinata e riscontrata ha valore di prova piena
Operata questa premessa si evidenzia che la dichiarazione de auditu del chiamante in reità o in correità, approfonditamente scrutinata (anche attraverso l’esame della fonte primaria, quando ciò sia possibile) e debitamente riscontrata, è considerabile a tutti gli effetti come una prova dichiarativa piena. In questo modo è possibile uscire dal perimetro dell’indizio in senso stretto e dalla previsione, dettata per la prova strutturalmente indiziaria, che richiede una pluralità di elementi gravi, precisi e concordanti, per assurgere a rango di prova, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
Tornando all’elemento di riscontro, questo deve essere certo ma può non avere anche il requisito della gravità; la norma di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. postula elementi di prova, e non indizi richiamati invece nel comma 2 della stessa disposizione, a conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni del chiamante, le quali, già di per sé, costituiscono prova seppure non pienamente autosufficiente; va aggiunto che il tenore della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. impone la valutazione delle dichiarazioni del chiamante unitamente agli altri elementi di prova, con la conseguenza che deve evitarsi un’analisi frammentaria dei singoli dati estrinseci alla chiamata non raccordati al contenuto di essa.
Da ciò deriva il principio secondo cui “gli altri elementi di prova” da valutare, ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante in correità o in reità, non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che essi siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento necessariamente unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria (Sez. 1, n. 31004 del 10/05/2023, Rv. 284840; Sez. 1, n. 34712, del 02/02/2016, Rv. 267528).
La chiamata in correità o in reità, anche de relato, validata ab intrinseco e riscontrata ab extrinseco, anche attraverso altra chiamata de relato, geneticamente autonoma e rispetto alla quale non sia rinvenibile la “circolarità”, è suscettibile di assurgere a prova dichiarativa piena.
