La Cassazione sezione 4 con la sentenza numero 16867/2024 ha stabilito che nel procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, la parte soccombente deve essere condannata, anche ex officio, al pagamento delle spese processuali, nel caso in cui, a seguito della costituzione del Ministero, sia stata rigettata la domanda di riparazione, salvo che lo stesso Ministero abbia chiesto la compensazione delle spese di giudizio.
In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che, nel caso in cui sia stata richiesta la compensazione delle spese, la statuizione di condanna della parte soccombente al pagamento delle spese giudiziali risulta emessa oltre i limiti della domanda, in violazione del principio di correlazione tra chiesto e pronunciato.
Il Ministero della Economia e delle Finanze nel corso del giudizio riparatorio si era costituito, opponendosi non già all’accoglimento della domanda, ma solo alla quantificazione del danno nella misura richiesta e in sede di conclusioni aveva espressamente chiesto la compensazione delle spese.
Principio pacifico è quello per cui le spese del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, per le connotazioni civilistiche che afferiscono a tale istituto, vanno regolate secondo i criteri indicati dagli articoli 91 e 92 cod. proc. civ. (Sez. 4, n. 38163 del 10/07/2013, Rv. 256832; Sez. 4, Sentenza n. 46265 del 14/10/2005, Rv. 232911).
In proposito, occorre ricordare che, secondo le Sezioni unite, il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è a contraddittorio necessario – in quanto si instaura con la notifica della domanda, a cura della cancelleria, al Ministero dell’economia e delle finanze – ma non a carattere contenzioso necessario, in quanto l’Amministrazione intimata può non costituirsi ovvero costituirsi aderendo alla richiesta del privato o rimettersi al giudice, sicché in questi ultimi casi, non essendovi contrasto di interessi da dirimere, non v’è soccombenza dell’Amministrazione e non può essere pronunciata la sua condanna alla rifusione delle spese, nonché degli eventuali diritti e onorari di rappresentanza e difesa in favore della controparte, mentre, qualora essa si costituisca, svolgendo una qualsiasi eccezione diretta a paralizzare o ridurre la pretesa dell’istante e veda rigettate le sue deduzioni o conclusioni, il contraddittorio si connota di carattere contenzioso e il giudice deve porre le spese stesse, nonché gli eventuali diritti e onorari a carico dell’Amministrazione soccombente o, se ne sussistono le condizioni, dichiararle totalmente o parzialmente compensate (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222264).
Va considerato che l’attivazione della procedura giudiziale è assolutamente necessaria perché il privato consegua l’indennizzo dovuto, sicché lo Stato, e per esso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, non può spontaneamente procedere extra-giudizialmente ad alcuna determinazione, né relativamente all’an, né relativamente al quantum debeatur in ordine alla pretesa del privato.
Ne consegue che ove la Pubblica Amministrazione non si opponga affatto alla richiesta del privato essa non può essere considerata soccombente nella relativa procedura e non può, quindi, essere condannata al rimborso delle spese processuali sostenute dalla parte privata, conformemente all’orientamento giurisprudenziale formatosi prima delle modifiche dell’art. 92 cod. proc. civ. (Sez. 4, n. 15209 del 26/02/2015 Rv. 263141; Sez. 4, n. 41307 del 02/10/2019 Rv. 277357-02).
Tali principi conservano validità anche a seguito della modifica dell’art. 92 cod. proc. civ. ad opera del d. l. n. 132 del 2014 e convertito nella Legge n. 162 del 2014: secondo la nuova disposizione il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, soltanto laddove vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti e, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018, qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni (Sez. 4, n. 24020 del 24/05/2023, Ministero Economia Finanze, Rv. 284649).
Venendo più direttamente al merito della doglianza, con cui si è censurata la condanna alle spese in favore del Ministero, si osserva che il procedimento di cui si discute ha assunto carattere contenzioso, in quanto il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito in giudizio e ha contestato il quantum debeatur.
In linea di principio, nell’ipotesi in cui, dopo la costituzione del Ministero, sia stata rigettata la richiesta di riparazione, il richiedente soccombente deve essere condannato di ufficio al pagamento delle spese, pur in assenza di espressa istanza dell’interessato, ai sensi degli artt. 91 e ss. cod. proc. civ.
Tale principio, tuttavia, non può applicarsi nell’ipotesi in cui l’interessato abbia manifestato la volontà di rinunciarvi (in tal senso Sez. U, n. 6242 del 18/11/1988, Rv. 460591; Sez. 2, n. 6893 del 03/07/1999, Rv. 528270)
Nel caso in cui lo stesso interessato abbia chiesto la compensazione delle spese, la statuizione di condanna della parte soccombente al pagamento delle stesse deve ritenersi in contrasto con l’art. 112 cod. proc. civ, in quanto emessa oltre i limiti della domanda e dunque in violazione del principio di correlazione tra chiesto e pronunciato, dovendo equipararsi la richiesta di compensazione alla rinuncia espressa (in tal senso Sez. 2, ordinanza n. 15326 del 12/06/2018 Rv. 649173).
Nel caso di specie, dunque, a fronte della richiesta di compensazione delle spese da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze costituitosi con contestazione della pretesa del ricorrente, la statuizione della condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal Ministero è stata emessa illegittimamente, in quanto in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.
In conclusione, l’ordinanza impugnata deve essere annullata limitatamente alla statuizione concernente le spese in favore del Ministero resistente, statuizione che deve essere eliminata.
