Il bene giuridico: un oggetto da maneggiare con cura (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 17473/2024, udienza del 27 febbraio 2024, ha analizzato gli effetti delle modifiche apportate al delitto di riciclaggio dall’art. 23, L. n. 55/1990.

A giudizio del collegio di legittimità, l’ampliamento delle condotte rilevanti che ne è derivato ha comportato sostanzialmente l’inclusione nella fattispecie di qualsiasi operazione finalizzata ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro o di altre utilità (così, in termini, Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 17771/2014).

L’attuale configurazione del riciclaggio è dunque quella di reato a forma libera che può risultare sia da condotte tali da alterare gli elementi identificativi del bene di provenienza delittuosa, sia da ogni altra attività capace di impedire il collegamento del bene al delitto.

Questa portata onnicomprensiva fa sì che la fattispecie incriminatrice in esame serva alla tutela non solo del patrimonio ma anche dell’amministrazione della giustizia e dell’ordine economico, quest’ultimo dovendo essere protetto dai rischi di inquinamento e destabilizzazione insiti fisiologicamente nel riciclaggio.

Poco importa, date tali premesse, che nel caso concreto in esame la provenienza delittuosa del bene sia stata accertata agevolmente: l’eventualità del reato impossibile è infatti esclusivamente legata all’inidoneità assoluta della condotta da valutarsi ex ante e certo non può dipendere dalla mera circostanza di fatto che il reato sia stato scoperto senza difficoltà (negli stessi termini, Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 21925/2018).

Note di commento

Il delitto di riciclaggio è collocato sistematicamente nel Capo II del Titolo XIII del Libro II del Codice penale.

Il legislatore codicistico lo ha dunque inserito tra i delitti contro il patrimonio e, all’interno di questi, tra i delitti contro il patrimonio mediante frode.

Chiare le indicazioni che ne derivano: l’incriminazione del riciclaggio è intesa a tutela del bene giuridico del patrimonio e la valenza fraudolenta delle relative condotte è tenuta in considerazione come ulteriore elemento specializzante.

La decisione qui commentata e quelle precedenti nella cui scia si è inserita ci dicono tuttavia che il riciclaggio, lungi dall’esaurire la sua funzione nella tutela del patrimonio, serve altresì a proteggere altri due beni giuridici: l’amministrazione della giustizia e l’ordine economico.

A questa operazione interpretativa segue ovviamente l’effetto di attribuire al delitto di cui si parla la natura di reato plurioffensivo.

È tutt’altro che un unicum, il nostro ordinamento penale contempla numerosi esempi di reati con uguale caratterizzazione.

Questa presa d’atto non può comunque precludere una riflessione in ipotesi critica sull’attività interpretativa che sta normalmente dietro alla configurazione di una fattispecie in termini di plurioffensività.

Riflessione, peraltro, utile non solo come puro esercizio del pensiero ma anche per le conseguenze che può generare riguardo ad aspetti eminentemente pratici.

Il punto di partenza necessitato è il bene giuridico.

Per un’analisi compiuta e critica di questa categoria tra le più inafferrabili ed irrisolte, rimando all’ancora attualissimo “Sul bene giuridico. Un consuntivo critico” di Giovanni Fiandaca, Giappichelli Editore, 2014.

Dallo stesso saggio ricavo le argomentazioni (che riporterò in corsivo), per me condivisibili senza riserve, utili a confermare la validità tesi di partenza: non ci si può, cioè, limitare ad assistere inerti ad un’operazione interpretativa di tipo “manipolatorio” senza interrogarsi sulla sua legittimità prima e sulle sue conseguenze dopo.

…Il bene giuridico concepito dinamicamente e i rischi di tale concezione

Per Fiandaca “Quanto più in particolare alla funzione interpretativa o ermeneutica, essa com’è noto consiste nell’assumere il bene giuridico protetto a punto di riferimento dell’attività di interpretazione delle leggi penali. Si tratta di un diffusissimo canone ermeneutico rientrante nel più ampio paradigma dell’interpretazione cosiddetta teleologica, orientata cioè secondo gli scopi e gli obiettivi di tutela perseguiti dalle disposizioni normative: così, in sede di ricognizione degli scopi di tutela presi di mira in particolare dalle leggi penali, si tende ad attribuire un ruolo orientativo centrale allo specifico bene o interesse che queste di volta in volta proteggono […] secondo un orientamento da tempo dominante, l’approccio teleologico fa riferimento ad un bene concepito non già in maniera statica alla stregua della visione soggettiva del legislatore storico: bensì ad un bene concepito dinamicamente, nel senso che si fa rientrare nella competenza dell’interprete (dottrinale o giudiziale) la facoltà di sviluppare ed attualizzare gli originali obiettivi di tutela al mutare dei contesti di riferimento e all’evoluzione delle aspettative sociali di protezione. Il che non può, per altro verso, non porre in tensione un’attività interpretativa così concepita col principio di stretta legalità in materia penale. Ora, è incontestabile che il metodo teleologico costituisce a tutt’oggi uno strumento irrinunciabile per ricostruire senso, portata e limiti delle fattispecie penali. Quel che appare meno sicuro, e perciò controvertibile, è invece l’effettivo ruolo in atto giocato dal bene giuridico […] l’interpretazione teleologica delle norme penali finisce inevitabilmente col (o rischia di) riproporre, di fatto e nella sostanza, quella concezione cosiddetta metodologica del bene giuridico […] piuttosto che andare alla ricerca […] di un bene come entità preesistente alla norma incriminatrice […] identificare o confondere bene giuridico e ratio di tutela“.

…Tendenza legislativa alla tutela penale di beni o interessi collettivi ad amplissimo spettro

È un fatto che i legislatori, già da qualche decennio, non solo tendono a munire di tutela penale beni od interessi collettivi di amplissimo spettro difficilmente circoscrivibili secondo precise coordinate empiriche, nonché funzioni o realtà istituzionali difficilmente riconducibili all’idea tradizionale di Rechtsgut [interesse protetto dalla norma, ndr]: essi tendono altresì ad utilizzare il diritto penale anche quale strumento finalizzato a prevenire e reprimere fenomeni di grande portata, considerati socialmente assai dannosi e, perciò, come emergenze da contrastare a tutto campo  […] Sicché si ritiene che il legislatore sia legittimato a perseguire anche con la tutela penale obiettivi contingenti di politica criminale che vanno al di là della protezione dei beni giuridici. Ne deriva, di conseguenza, il profilarsi di una concezione latissima del criterio dell’offensività […]  che in sostanza finisce con l’essere riferito, più che alla capacità della singola condotta di minacciare in maniera diretta i beni ultimi assunti ad oggetto di protezione, alla disfunzionalità di essa rispetto alla composita ratio legis“.

…Non è il giudice a poter salvaguardare il principio di offensività

se il danno o il pericolo per il bene protetto non costituisce un requisito su cui è imperniata la fattispecie legale, pretendere che il giudice vada nondimeno alla ricerca di una qualche forma di lesività in concreto equivale, in realtà, ad autorizzarlo a manipolare la fattispecie incriminatrice sulla base di parametri di giudizio a carattere extratestuale (politico-criminali, sociologici, equitativi, ecc.). Per altro verso, è dubbio che la giurisprudenza sia culturalmente propensa, in termini di generale orientamento di fondo, a far un uso dell’offensività in chiave di orientamento ermeneutico a vocazione univocamente restrittiva. Com’è noto, sono tutt’altro che pochi i casi (anzi, sono verosimilmente prevalenti) in cui la prassi applicativa tende a privilegiare un’interpretazione teleologica di tipo estensivo-additivo, volta a cavare dalle norme incriminatrici il massimo della punibilità (ciò in omaggio al primato ideologico della salvaguardia a tutto campo dei beni giuridici o della difesa sociale)“.

Conclusioni

Fiandaca ammonisce il legislatore e il giudice a maneggiare con cura il bene giuridico.

Non è bene rarefarlo fino a ridurlo ad un’inafferrabile astrazione, annacquarne il significato, usarlo come grimaldello per obiettivi contingenti, in una parola spogliarlo della sua imprescindibile connessione con il principio di offensività.

Non è bene, altresì, che si attribuisca all’interprete qualificato, il giudice, la legittimazione a sacrificare il testo in nome dello scopo, soprattutto se agisce in modo da assicurare il massimo della punibilità.

Non è bene, mi sento di aggiungere, ampliare mediante l’attribuzione della plurioffensività ad una fattispecie incriminatrice il novero delle parti offese ed accentuare anche per questa via la caratterizzazione vittimocentrica del giudizio di cui molti osservatori autorevoli denunciano la capacità di alterazione degli equilibri propri del giudizio.

Non ho bisogno di sottolineare che queste considerazioni conclusive non riguardano – non necessariamente, almeno – la decisione che ha dato spunto a questo post.

Essa contiene indubbiamente un’operazione interpretativa manipolatoria di tipo estensivo-additivo che tuttavia non sembra distaccarsi dal canone della ragionevolezza.

E tuttavia, è bene interrogarsi ogni volta che ciò accade.