L’imparzialità dei magistrati (di Vincenzo Giglio)

Poco più di un quarto di secolo fa la Cassazione civile a sezioni unite emise la sentenza n. 8906/1998 del 14 maggio 1998 che definì con chiarezza esemplare il tratto identitario più essenziale del magistrato: “l’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di “essere” imparziale, ma anche di “apparire” tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni “parzialità”, ma anche di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l’essere magistrato implica una “immagine pubblica di imparzialità”“.

L’imparzialità, dunque: un dovere e insieme una prerogativa così imprescindibili da esigere non solo l’essenza ma anche l’apparenza.

L’elencazione delle fonti genetiche di tale dovere è ovviamente impossibile in un post come questo.

Ci si limita quindi a rilevare che l’imparzialità è la precondizione senza la quale plurimi precetti costituzionali perderebbero effettività o diverrebbero addirittura irrealizzabili.

Che fine farebbero, per esempio, il diritto di agire in giudizio per la tutela di diritti e interessi legittimi, la presunzione di non colpevolezza, il buon andamento dell’amministrazione giudiziaria e la devozione dei suoi dipendenti magistrati al servizio esclusivo della Nazione e l’intero statuto del giusto processo se fossero affidati a individui non imparziali?

Si parla quindi di un valore essenziale che, proprio perché tale, deve essere associato ad ogni magistrato, quale che sia la funzione che gli è assegnata. Vale per la magistratura requirente come per quella giudicante, senza eccezioni e distinguo.

Su questo presupposto, del resto, si regge il ferreo postulato che assegna agli atti dei magistrati del pubblico ministero una sorta di fede privilegiata, come si è premurata di ricordare qualche anno fa Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 16458/2020, che, con argomentazioni peraltro più che discutibili, ha appunto attribuito alle consulenze tecniche disposte dal PM valore superiore a quelle prodotte dalla difesa fondando il principio, tra l’altro, sul dovere di imparzialità dell’accusa pubblica.

Fatta questa premessa di cornice, resta intatta la questione principale: cos’è l’imparzialità?

Si può rispondere in vari modi a questa domanda, tutti legittimi e giustificabili.

Ho una mia personale preferenza: è imparziale il magistrato che merita la fiducia dell’essere umano che con lui entra in contatto perché ha bisogno di giustizia, quale che sia la ragione che induce questo bisogno, quale che sia la veste che quell’essere umano indossa, quale che sia la giurisdizione chiamata a soddisfare quel bisogno.

Ma come si merita questa fiducia, facendo cosa e astenendosi dal fare cosa?

Domanda, questa, ancora una volta a risposta aperta.

Qualcuno ha detto che il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni deve anzitutto essere indipendente da se stesso, nel senso di essere capace di tenere a bada non solo le proprie convinzioni ideologiche ed etiche ma anche le emozioni e i sentimenti che prova come qualsiasi altro essere umano. Non mi convince: un magistrato che rinunciasse deliberatamente a compassione ed empatia perderebbe se stesso e la sua capacità di ascolto e comprensione piuttosto che guadagnare libertà di giudizio.

Qualcun altro ha detto che l’imparzialità deve rifuggire dalla neutralità, poiché quest’ultima è nient’altro che una sterile equidistanza. Questo mi convince di più perché l’essenza della giurisdizione e insieme il suo prodotto finale è una decisione e quindi una scelta. Il PM che non agisce e il giudice che non decide negano se stessi e la loro funzione.

E allora cos’altro? Cos’è che non può mancare nel quadro dell’imparzialità?

A me pare, e mi avvio a concludere, che l’imparzialità viva e si manifesti solo se il magistrato accetti e faccia propria l’idea della natura relazionale del giudizio.

Ogni procedimento implica necessariamente un duplice piano di relazioni: quello tra le funzioni (accusa/azione, difesa/reazione e giudizio) e quello tra gli esseri umani cui sono affidate quelle funzioni.

Esseri umani che devono parlare tra loro, ascoltarsi e dare la giusta importanza a ciò che si dicono e che ascoltano.

Funzioni che si intersecano e che acquistano significato e vitalità solo nel reciproco incrocio.

A queste condizioni qualcuno, il giudice, pur sempre deciderà e lo farà in piena autonomia e libertà, come è giusto che sia.

Ma lo farà solo dopo aver dato vita a un contatto reale e significativo con le parti del giudizio, esplicitando con chiarezza la direttrice che intende seguire ma consentendo che sia influenzata dagli impulsi e dai correttivi che l’attività delle parti avrà reso possibili o addirittura imposto.

Nel corso di questa attività le parti parleranno tra loro e si ascolteranno perché solo così acquisiranno la migliore intelligenza di ciò che serve al giudizio e può indirizzarne l’esito. Se non lo faranno, se si ritrarranno da questo dovere, impoveriranno il giudizio e lo devieranno dal suo scopo, contribuendo a produrre un risultato scadente.

L’imparzialità non è dunque il fotogramma di un momento, non è un sigillo da mettere ad una merce.

È il risultato di una sequenza condivisa che, per quanto possa apparire paradossale, rende sostanzialmente corale e sinfonica una decisione che formalmente appartiene in esclusiva al giudice.