Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 12762/2022, udienza del 13 gennaio 2022, ha accolto il ricorso di un detenuto avverso l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che aveva respinto il suo reclamo ai sensi dell’art. 35-ter, ord. pen., in tema di risarcimento conseguente a detenzione inumana e degradante.
Il diniego era stato fondato su una nota dell’amministrazione penitenziaria che aveva comunicato di non essere in grado di chiarire la concreta allocazione del detenuto poiché un’alluvione aveva distrutto i relativi registri.
Il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della disciplina regolatrice di cui all’art. 35-ter ord. pen., ritenendo violato, in particolare, il principio – espresso in più decisioni interne e sovranazionali – della ‘vicinanza della prova’, in virtù del quale, a fronte di allegazione non generica del ricorrente, il fatto costitutivo della lesione deve ritenersi, in assenza di contestazione da parte dell’Amministrazione, dimostrato.
Ciò perché egli non ha la disponibilità personale dei documenti giustificativi della domanda e non può essere considerata rilevante la ragione per cui l’Amministrazione non è più in grado di controdedurre, ma il fatto obiettivo della mancata controdeduzione.
Il collegio di legittimità ha accolto il ricorso.
Come ritenuto da Sez. I, n. 23362 del 11.5.2018, rv. 2373144, nonché da Sez. V n. 18328 del 8.6.2020, rv. 279208, nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., le allegazioni dell’istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata e riscontrata sotto il profilo dell’esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull’Amministrazione penitenziaria l’onere di fornire idonei elementi di valutazione di segno contrario.
Nella motivazione della citata decisione n. 23362, con argomenti condivisi dal collegio, dopo aver esaminato i contenuti delle sentenze emesse, sul punto controverso, dalla Corte EDU si è precisato quanto segue.
Il punto di maggior interesse – comune alle decisioni emesse dalla Corte EDU – è rappresentato dalla affermazione relativa all’esistenza di una ragionevole presunzione relativa di veridicità delle affermazioni rese dal soggetto detenuto, in considerazione della necessità di bilanciare l’asimmetria derivante da tale condizione, per cui l’Amministrazione è unico soggetto detentore di quel complesso di informazioni idonee ad apprezzare la legalità del trattamento.
La domanda da porsi è, pertanto, se tale criterio possa o meno essere adottato – in assenza di una specifica disposizione legislativa sul tema – dal giudice interno, quale criterio idoneo ad orientare la trattazione e la decisione delle procedure instaurate ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., da ritenersi in via generale assoggettate al principio per cui la tutela viene concessa lì dove il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo, introdotto dall’attore risulta «più probabile che non» (quanto alla distinzione tra criterio penalistico del ‘ragionevole dubbio’ e civilistico della ‘preponderanza dell’evidenza’ v. Sez. III civ. n. 10285 del 5.5.2009, rv. 608403).
La risposta al quesito è, ad avviso del collegio, positiva, per le ragioni che seguono.
La prima ragione è rappresentata, come si è detto, dalla necessità (Corte cost. n. 204/2016) di adottare criteri interpretativi della disposizione in esame tesi ad attribuire allo strumento introdotto dal legislatore nel 2014 il maggior grado possibile di effettività.
La seconda ragione va ricercata nel fatto che anche nel sistema interno, in campo civile, il principio di «prossimità» alla prova è da tempo utilizzato in chiave di riequilibrio processuale di asimmetrie sostanziali, in rapporto a quanto previsto in tema di effettività della difesa ed azione in giudizio dall’art. 24 Cost.
Ciò crea conformità di assetto tra le regole seguite in sede convenzionale e gli approdi interpretativi interni, con ulteriore allineamento sistematico dei livelli di tutela fruibili in rapporto alla ipotizzata lesione della medesima posizione soggettiva. Si vedano, quanto alla elaborazione del principio di ‘disponibilità e prossimità’ della prova, le decisioni interne tese ad affermare che la ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio – riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della prova negativa (Sez. L del 25.7.2008 n. 20484; Sez. L n. 15406 del 1.7.2009); ancora, il principio è stato, ad esempio, affermato in campo di responsabilità civile medico-chirurgica, relativamente alla prova di eventuali omissioni nella tenuta della cartella clinica (Sez. III civ. n. 6209 del 31.3.2016, rv 639386).
Dunque, il percorso interpretativo, dovendo risalire ai principi generali dell’ordinamento, non può che includere le consapevolezze maturate in campo civilistico, ferma restando la affinità solo parziale tra le situazioni in comparazione. Ciò induce a ritenere che anche nel sistema interno, innanzi al Magistrato ed al Tribunale di Sorveglianza, debba trovare applicazione il principio di diritto per cui la particolare condizione del soggetto ristretto realizza le condizioni – nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. – per l’inversione dell’onere della prova, nel senso che l’affermazione dell’istante (contenuta in istanza ammissibile e riscontrata quanto alla avvenuta privazione di libertà nel periodo indicato) è da ritenersi assistita da una presunzione relativa di veridicità dei suoi contenuti che è compito dell’amministrazione ribaltare attraverso la produzione di elementi di smentita idonei. In tal senso, non si tratta – ovviamente – di qualificare i contenuti assertivi della domanda in termini di prova legale, quanto di riconoscere che il sistema di tutela dei diritti fondamentali del soggetto privato della libertà richiede a fini di effettività – e per i fatti avvenuti in costanza di detenzione – la adozione di una diversa ripartizione dell’onere dimostrativo che imponga al detentore delle informazioni lo sforzo di introdurre nel procedimento la conoscenza eventualmente impeditiva.
Resta salva, in simile contesto procedimentale, l’attivazione dei poteri di verifica ex officio, il cui esercizio va ritenuto necessario, sempre sulla base dei principi generali, lì dove venga – anche in virtù delle controdeduzioni dell’amministrazione o in rapporto a documentazione comunque acquisita -, a determinarsi una condizione di incertezza probatoria non altrimenti superabile.
Tornando al caso qui in esame va aggiunto che, per quanto sinora argomentato, non rileva il motivo per cui l’Amministrazione non si trovi in condizioni tali da offrire alla giurisdizione di sorveglianza la documentazione relativa alla esatta allocazione del detenuto, non trattandosi di una condotta da apprezzare sotto il profilo della colpa, quanto di una carenza obiettiva di informazioni (da parte dell’unico soggetto detentore ufficiale delle medesime) che va risolta con l’applicazione del criterio della ‘presunzione relativa’ di fondatezza della domanda, salvo l’esercizio ex officio dei poteri ricostruttivi della condizione di fatto, tali da consentirne la ulteriore verifica.
Né può dirsi che la domanda introduttiva del ricorrente fosse generica, essendo stato indicato il periodo detentivo, il luogo e la ragione della violazione (sovraffollamento tale da determinare carenza di spazio vitale).
L’ordinanza va pertanto annullata con rinvio per nuovo giudizio, come da dispositivo.
