Pochi giorni addietro la rivista Archivio Penale ha pubblicato “Qualche considerazione sui rapporti tra teoria e prassi in diritto penale” di A. Cavaliere ((lo scritto è consultabile a questo link).
Come si ricava dall’abstract, “Il lavoro tratteggia il rapporto tra teoria e prassi in diritto penale, proponendo un più ampio impiego di un metodo interdisciplinare, con particolare riguardo alle acquisizioni delle scienze sociali. Ciò può risultare proficuo nella comprensione delle difficoltà che la “dottrina” incontra nel tentativo di influenzare la prassi. Vengono elencati alcuni strumenti di cui la dottrina dispone a tal scopo e viene sottoposto a critica il ruolo che la teoria e la dottrina “in pratica” svolgono“.
Servono anzitutto due chiarimenti per meglio comprendere la riflessione di Cavaliere.
La prassi – e qui mi concedo una sintesi brutale – è il modo in cui vanno le cose.
La prassi penale – e qui invece riporto le parole dell’Autore – “è anzitutto quella legislativa, prima di quella giurisprudenziale; ma è anche la prassi dell’agire delle forze dell’ordine e dei soggetti del procedimento penale, a partire dai pubblici ministeri; ed è pure la prassi relativa all’esecuzione della pena, specialmente detentiva – a cui, specie in passato, non è stata dedicata la dovuta attenzione –, nonché quella concernente le sanzioni sostitutive/alternative“.
La tesi di Cavaliere è che da tempo la teoria, cioè la dottrina, abbia perso gran parte della sua capacità di influenzare la prassi.
L’oggetto del lavoro è dunque l’identificazione delle ragioni di questa crisi, in parte dovuta alla stessa dottrina, in parte indotta da cause esterne.
Un rilievo negativo speciale è attribuito dall’Autore all’inadeguata qualità della formazione universitaria e post-universitaria dei giovani giuristi che aspirano all’avvocatura e alla magistratura.
Cavaliere tratteggia un quadro impietoso a partire dell’ambito dell’accademia: una dottrina che “risente delle temperie culturali“, la cui gran parte “negli ultimi lustri, ha ristretto i propri orizzonti ideali“, che “naviga a vista, rinunciando ad ampie prospettive politico-criminali alternative; e si assiste ad un diffuso disimpegno teorico-generale, talora sostituito dall’impegno dedicato all’analisi della prassi forense“, che “rinuncia a proporre una visione generale e si riduce a commentatrice delle pronunce giudiziarie” e che “perde, anche per questa via, autorevolezza“.
Problemi di non minore spessore inficiano la formazione post-universitaria: “si assiste […] ad una privatizzazione e corporativizzazione della formazione post lauream, indotta, per un verso, dalla normativa – si pensi allo svuotamento del ruolo delle Scuole di specializzazione per le professioni legali ed alla previsione di una scuola ad hoc per la formazione degli avvocati, gestita dall’avvocatura, e di una per la formazione dei magistrati, gestita dalla magistratura –; e, per altro verso, dall’humus tecnicistico che ha trasformato da tempo i concorsi pubblici per l’ammissione alla magistratura, all’avvocatura e ad altri ruoli giuridici in prove prevalentemente mnemoniche specialistiche e “presentistiche”, in quanto incentrate sull’aggiornamento all’ultima sentenza.
Di tale humus – e dell’ansia dei giovani che si confrontano con un tale stato di cose, in un contesto di crescente disoccupazione intellettuale – si avvantaggia, non da ora, il lucrativo mercato dell’informazione giuridica: corsi privati economicamente non accessibili a tutti – il che dà luogo ad una selezione per censo degli aspiranti magistrati – e costosi libri professionali, soi-disant manuali, che talora assomigliano piuttosto a grossi elenchi – di tipo telefonico – di pronunce giurisprudenziali.
In tal modo si è venuta a creare l’intollerabile percezione di una “doppia verità”: la dottrina forma lo studente universitario, ma dopo la laurea le sue “verità” vengono sostituite dalla “verità vera”, quella raccontata dai pratici nelle scuole private o da magistrati o da avvocati nella loro formazione post lauream“.
Pare di poter dire che ciò che Cavaliere denuncia sopra ogni cosa è una sorta di “consociativismo” del pensiero giuridico che produce frutti scadenti: omologazione al ribasso, crescente inettitudine a concepire visioni generali, eccessiva compiacenza verso il potere costituito, che sia legislativo o giudiziario, e i suoi prodotti tipici, rinuncia preventiva a combattere le battaglie che sarebbero proprie della teoria, humus tecnicistico e così via.
Emergono di conseguenza e in modo prepotente interessi mercantilistici che ben poco hanno a che fare con ciò che serve davvero a chi si prepara allo studio ed all’applicazione del diritto: manuali simili ad elenchi telefonici che limitano la loro funzione alla capillare elencazione di fonti normative e giurisprudenziali, una vera e propria giungla di centri di formazione la cui capacità seduttiva dipende in larga parte dalla presenza di magistrati dotati di carisma e leadership e spesso anche di protagonismo mediatico e istituzionale, aspiranti avvocati e magistrati che vengono irregimentati all’insegna del pensiero unico e la sua unicità sta soprattutto nel conformismo all’esistente.
Nel frattempo, la ricerca vera langue, soprattutto quella che sarebbe indispensabile per uscire dalla maledizione del suddetto consociativismo.
Osserva al riguardo Cavaliere che questo avviene “specialmente nelle aree scientifiche in cui manca la possibilità di accedere a cospicui finanziamenti privati, come quella delle scienze giuridiche; ed in particolare nell’ambito di quelle materie e ricerche di base che, pur avendo essenziali implicazioni di pubblico interesse – in diritto penale, si sa, sono in gioco i diritti fondamentali della persona –, sono meno interessanti per il “mercato”. Ovviamente, è molto più facile trovare finanziamenti per una ricerca sulla responsabilità degli enti che per una sull’ergastolo…“.
Ritengo che Cavaliere abbia ragione da vendere.
Lo si constata quotidianamente nella produzione legislativa e in quella giurisprudenziale, sempre più asfittiche, dimentiche dello spirito autentico della Costituzione, avvitate attorno a presupposti ideologici e sequenze logiche non di rado aberranti.
Lo si nota nella desolante disattenzione a diritti e libertà di importanza centrale.
È una brutta deriva e bisogna combatterla.
