La nozione di delitti della stessa specie in tema di esigenze cautelari (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 8932/2024, udienza dell’8 febbraio 2024, si è soffermata sulla nozione di “delitti della stessa specie” contenuta nell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.

L’art. 274 cod. proc. pen., sotto la rubrica “esigenze cautelari”, prevede tre distinti casi, indicati rispettivamente nelle lettere a), b) e c).

Come è stato osservato, i primi due (il pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova o che l’imputato si dia alla fuga) costituiscono tipizzazione di esigenze strettamente inerenti al processo penale, mentre il pericolo di reiterazione criminosa indicato nella lettera c) ha un fondamento in parte diverso, attinente a finalità di prevenzione esterne al processo, da ricondursi a esigenze di tutela della collettività (Corte cost., n. 57 del 15/02/2022).

Esigenze di tutela della collettività che già il legislatore delegante, mutuando l’espressione da Corte cost., n. 1 del 17/01/1980, aveva tenuto distinte dalle restanti ragioni giustificatrici di misure cautelari, costituite dalle «inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario» ovvero dalla circostanza che «la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga» (art. 2, numero 59, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»).

Se le esigenze «strettamente inerenti al processo» sono state sempre individuate quale ambito proprio di operatività delle misure cautelari nel processo penale, nondimeno il giudice delle leggi, in epoca ancora risalente, ha evidenziato come non si potesse «escludere che la legge possa (entro i limiti, non insindacabili, di ragionevolezza) presumere che la persona accusata di reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela dei quali la detenzione preventiva viene predisposta» (Corte cost., n. 64 del 23/04/1970).

Dunque, l’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. prevede fattispecie caratterizzate da intrinseca gravità (il pericolo, cioè, di commissione di «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata») e, in aggiunta, l’esigenza cautelare connessa al pericolo che l’imputato o la persona sottoposta alle indagini commetta un delitto «della stessa specie di quello per cui si procede».

Solo quest’ultima ipotesi, a partire dal 1995 e con successive correzioni di rotta fino alle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, è espressamente ed ulteriormente delimitata – ai soli fini dell’emissione di misure custodiali – attraverso la previsione di una condizione attinente alla gravità dei reati di cui si teme la reiterazione: è infatti previsto che, laddove il pericolo di reiterazione attenga a delitti della stessa specie di quello per cui si procede, «le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni».

In passato si è talora affermata una lettura del concetto di “stessa specie” coincidente con il concetto di “stessa indole” di cui all’art. 101 cod. pen.: se ne trova traccia, per esempio, in Sez. 1, n. 3435 del 08/07/1994, Rv. 199863, laddove il giudizio sulla prognosi di reiterazione criminosa rilevante ai fini dell’adozione di misure cautelari è stato condotto facendo riferimento all’esistenza di “caratteri fondamentali comuni” tra il delitto per cui si procedeva e quello del quale si valutava il pericolo di reiterazione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della recidiva specifica (art. 99, comma secondo n. 1, cod. pen., che appunto richiama l’art. 101 cod. pen.).

La successiva Sez. 3, n. 36319 del 05/07/2001, Rv. 220031, ha fatto riferimento ancora una volta al concetto di “stessa indole” per affermare che «in tema di presupposti per l’applicazione di misure coercitive personali, la prognosi negativa derivante dalla pregressa commissione di reati della stessa indole – art. 274, lett. c) del cod. proc. pen. – sussiste anche in presenza di fattispecie criminose che, pur non previste dalla stessa disposizione di legge, presentano “uguaglianza di natura” in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive».

Escluso in ogni caso, anche dalla dottrina, che il concetto di “stessa specie” debba essere inteso in senso così restrittivo da equivalere a “stessa norma incriminatrice”, l’elaborazione giurisprudenziale successiva appare coerente e sostanzialmente univoca. Il ricorrente tenta di argomentare l’esistenza di un contrasto interpretativo radicale sulla base di mere differenze terminologiche tra una sentenza e l’altra, la cui inattitudine a giustificare tale radicale contrasto è resa evidente talora dalla circostanza che le espressioni linguistiche sintomatiche, nella prospettiva del ricorrente, dell’adesione ad orientamenti diversi sono usate nel corpo della medesima sentenza, finendo per rappresentare il medesimo concetto.

Così, per esempio, Sez. 1, n. 10347 del 20/01/2004, Rv. 227227, parla effettivamente di “medesimo bene giuridico” a proposito del concetto di “delitti della stessa specie”; ma, nel medesimo contesto, precisa che il pericolo di reiterazione va inteso come «pericolo specifico di commissione di delitti collegati sul piano dell’interesse protetto», aprendo evidentemente la strada ad un “collegamento” e non necessariamente ad una assoluta “identità” di interesse tutelato.

Altre volte il concetto di “bene giuridico” tutelato è stato adoperato proprio in funzione estensiva, per respingere l’interpretazione, che il ricorso sosteneva, secondo la quale il pericolo di reiterazione dovesse riguardare fattispecie di reato del tutto omologhe a quella per cui si procedeva (così Sez. 6, n. 28618 del 05/04/2013, Rv. 255857).

Ed è allora chiara l’identità di ratio tra pronunce quale quella appena citata ed altre che, però, il ricorrente ritiene espressione dell’indirizzo in contrasto: laddove, per esempio, Sez. 5, n. 70 del 04/09/2018, dep. 2019, Rv. 274403 (citata da Sez. 5, n. 11722/2023), che non fa più riferimento al concetto di “bene giuridico”, esprime però il medesimo principio della appena citata Sez. 6, n. 28618/2013 cit. (che invece si riferiva al “bene giuridico” tutelato), e cioè che il pericolo vada valutato non soltanto rispetto alla commissione di reati analoghi a quello per cui si procede.

Esattamente consonante è il ragionamento di Sez. 6, n. 47887 del 25/09/2019, Rv. 277392, che il ricorrente espressamente cita quale espressione di un orientamento in insanabile contrasto con quello ritenuto preferibile: chiamata ad esprimersi circa il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie in capo ad un soggetto che, sottoposto a misura cautelare per maltrattamenti in famiglia, era ritenuto “a rischio” di commissione di un reato diverso, quale quello di atti persecutori o quello di lesioni personali, la Corte ha chiarito ancora una volta come il concetto di reati della stessa specie «deve riferirsi non solo a reati che offendono il medesimo bene giuridico, ma anche alle fattispecie criminose che, pur non previste dalla stessa disposizione di legge, presentano “uguaglianza di natura” in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive».

Dunque nel caso concreto, ha concluso la Corte, «ne discende che, sebbene i reati di maltrattamenti e di atti persecutori siano posti a presidio di beni giuridici diversi – atteso che il primo delitto tutela l’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari, mentre il secondo salvaguarda la libertà morale della persona – è indubbio che le relative condotte materiali siano assimilabili per modalità esecutive e tipologia lesiva, là dove si risolvono in comportamenti suscettibili di cagionare sofferenza e prostrazione nella vittima, di tal che possono certamente ritenersi “della stessa specie”».

Sicché in definitiva la riflessione giurisprudenziale sul concetto di “stessa specie”, ai fini richiesti dall’art. 274, comma 1 lett. c) cod. proc. pen., può dirsi assestata sulla necessità che il reato del quale sussista il pericolo di reiterazione sia caratterizzato, rispetto a quello per cui si procede, indifferentemente dall’offesa del medesimo bene giuridico o dell’identità di natura (così, richiamando la citata Sez. 6 n. 47787/2019, Sez. 5, n. 4844 del 12/01/2024, non massimata).

Plurime sono le conferme, da parte della giurisprudenza di tutte le sezioni, circa la correttezza della conclusione raggiunta, che va ribadita e che non si pone in termini di significativo contrasto rispetto ad un’altra tesi, come il ricorrente sostiene. Per limitare la citazione ad una sentenza recente per ciascuna sezione, si vedano (non massimate sul punto), in ordine cronologico inverso: Sez. 2, n. 494 del 13/12/2023, dep. 2024; Sez. 1, n. 51168 del 06/09/2023; Sez. 5, n. 39485 del 06/09/2023; Sez. 4, n. 18526 del 12/04/2023; Sez. 6, n. 24259 del 26/04/2022; Sez. 3, n. 33087 del 15/07/2021.

In conclusione, e solo per completezza, è infondata la pretesa di trarre dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 5, § 1 lett. c) della Convenzione EDU principi in contrasto con la richiamata giurisprudenza nazionale e, in particolare, criteri ermeneutici improntati a maggior rigore nella valutazione dei presupposti di applicazione di una misura cautelare fondata sul pericolo di recidiva. Va anzitutto ricordato che la norma, nella parte di interesse, recita: «Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della sua libertà, eccetto che nei casi seguenti e per via legale: … c) se è stato arrestato o detenuto per essere condotto avanti l’autorità giudiziaria competente, quando si ha fondato motivo di supporre che abbia commesso un reato o si ha motivo di credere che è necessario impedire che commetta un reato …». Dunque, già sul piano letterale, il fondato motivo di supporre che il soggetto abbia commesso un reato (che attiene alla valutazione della gravità indiziaria) costituisce presupposto sufficiente ed alternativo rispetto alla necessità di impedire un reato. In ogni caso, il pericolo di recidiva deve essere “plausibile” e la misura adottata deve essere “appropriata”, «in the light of the circumstances of the case and in particular the past history and the personality of the person concerned» (Corte EDU, 12/12/1991, Clooth v. Belgium, § 40).

 La decisione della Grande Camera nel caso S., V. ed A. c/ Danimarca del 22/10/2018, citata dal ricorrente a pagina 19 a sostegno delle proprie ragioni, conferma l’assunto, laddove anzitutto si occupa non di una misura cautelare personale disposta in un procedimento penale, bensì di una misura di polizia, emessa sulla base del sospetto che i destinatari della stessa si rendessero pericolosi per la sicurezza pubblica (v. § 138 della sentenza). La sentenza, che non ha ravvisato nel caso sottoposto ad esame violazioni dell’invocata norma della Convenzione, ricorda pure che il concetto di “offence” contenuto nel testo dell’art. 5, e che in italiano è tradotto “reato”, può avere addirittura esso stesso una portata più ampia («The “offence” does not have to be limíted to conduct that has been characterised as an offence under national law»: § 90); ed aggiunge che la “pretrial detention” è giustificata laddove sussistano semplicemente «relevant and sufficient reasons» (§ 77).