Informazione antimafia: è illegittima se fondata su una condanna per reato non compreso tra i delitti-spia e senza la dimostrazione dell’agevolazione di attività criminali o del condizionamento di queste sull’attività di impresa (di Vincenzo Giglio)

La terza sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato ha pubblicato il 28 febbraio 2024 la sentenza n. 1941/2024 (allegata alla fine del post in forma debitamente anonimizzata), emessa in esito all’udienza pubblica del 18 gennaio 2024.

La decisione ha accolto il ricorso, presentato nell’interesse del titolare di un’impresa individuale destinataria di un’informazione antimafia, avverso la sentenza di primo grado emessa dal TAR per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, che è stata conseguentemente annullata.

Si rinvia alla lettura integrale del documento per la compiuta conoscenza della vicenda giudiziaria, delle ragioni addotte a sostegno del ricorso e delle argomentazioni utilizzate dai giudici amministrativi per il suo accoglimento.

Ci si focalizza pertanto sui temi di maggiore interesse giuridico.

Si riporteranno tra virgolette ed in corsivo i passaggi letterali tratti dalla sentenza presa in esame.

Le evidenziazioni in neretto sono di chi scrive.

I concreti elementi da cui derivare la possibilità che l’attività d’impresa agevoli, anche indirettamente, attività criminose o ne sia in qualche modo condizionata

Serve premettere che il titolare dell’impresa ricorrente “è stato destinatario di ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di concorso in produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti (artt. 110 c.p. e 73 D.P.R. n. 309/1990) dalla quale si evince che il titolare dell’impresa operava da mediatore e la sua condotta era “funzionale alla realizzazione degli interessi della cosca di ‘ndrangheta (i proventi dello spaccio finivano nella cassa comune dell’organizzazione e servivano a finanziare le attività della stessa cosa, e a mantenere le famiglie dei sodali detenuti o latitanti. Il procedimento penale risulta, poi, essersi definito, per quanto consta in atti, con un dispositivo di condanna a due anni e due mesi di reclusione emesso dal G.U.P. del Tribunale di Reggio Calabria (cfr. deposito del 19 luglio 2022 recante il dispositivo G.U.P. del Tribunale di Reggio Calabria dell’8 giugno 2022). Ai fini della disamina che qui occupa il Collegio, non viene messa in discussione la risultanza penale, che emerge per tabulas e delinea un chiaro quadro di responsabilità penale e di disvalore per le comprovate condotte del – OMISSIS – afferenti al traffico di sostanze stupefacenti“.

Il collegio osserva al riguardo che “Pur non trattandosi di un delitto-spia tra quelli tabellati dall’art. 84, co. 4, lett. a), d.lgs. n. 159/2011, l’addebito penale ascritto al -OMISSIS- denota un’intrinseca strumentalità all’attività delle organizzazioni criminali di matrice ‘ndranghetista della zona, consistita sostanzialmente nel raccogliere e destinare i proventi dello spaccio alla cassa comune della cosca dei -OMISSIS-. Di tale circostanza vi è dovizia di elementi nel provvedimento impugnato, successivamente avallati dal vaglio del giudice di prime cure“.

E tuttavia “Ciò che rileva, di contro, è il riscontro o meno dell’ulteriore presupposto normativo, nitidamente enucleato dall’art. 91, co. 6, d.lgs. 159/2011, della sussistenza di “concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”, parallelamente alla valorizzazione di provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali da cui il Prefetto può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa“.

…Il deficit motivazionale del provvedimento prefettizio e della sentenza di primo grado

L’apparato motivazionale dell’interdittiva prefettizia e, conseguentemente, della statuizione di rigetto quivi gravata fanno, invece, difetto della puntuale disamina degli elementi concreti da cui dovrebbe emergere che l’attività dell’impresa individuale di barbiere possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata. L’incedere argomentativo dell’autorità prefettizia procede, infatti, per via ellittica giungendo ad affermare, con punte di apoditticità, che, vista la condotta criminale serbata dal -OMISSIS-si può esprimere un giudizio di valutazione negativa in ordine alla permeabilità dell’impresa individuale in parola rispetto a condizionamenti di tipo mafioso.

Del pari, la sentenza gravata opina che “il contestato rischio di condizionamento deriva, quindi, non solo dall’interposizione di soggetti terzi (parenti o conoscenti) capaci di interferire con l’attività economica dell’interessato, ma, direttamente, dalla propensione criminale del titolare dell’attività”.

In definitiva, si postula che il rischio infiltrativo risieda in re ipsa nella capacità a delinquere del prevenuto, alla luce del suo curriculum criminale.

…Incoerenza dell’apparato motivazionale al disposto di legge

Senonché, ad avviso del Collegio, tale assunto non supera il vaglio di legittimità alla luce del chiaro disposto di legge: in presenza di condanne penali, anche non irrevocabili, per delitti non rientranti tra quelli cd. spia la delibazione prefettizia deve apprezzare la risultanza penale unitamente ad altri elementi concreti idonei a corroborare, secondo il ben noto ragionamento induttivo di tipo probabilistico, il giudizio prognostico sul rischio infiltrativo. Pur vertendo nella materia del diritto della prevenzione antimafia, ispirata notoriamente a criteri di giudizio e standard probatori dissimili da quelli propri della materia penalistica, l’onere motivazionale cui è tenuta l’Amministrazione non può cedere alla insidiosa tentazione del ragionamento meramente presuntivo (una sorta di “mafiosità in re ipsa” dell’impresa individuale), in spregio dell’inequivoco dato normativo che esige il concorrente riscontro del precedente penale “per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali” (nel caso di specie, rinvenibile nella condanna per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 D.P.R. n. 309/1990) unitamente alla sussistenza di concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”.

Sul piano strettamente concettuale, manca in radice il trait d’union tra l’attività criminale del -OMISSIS -, non intrinsecamente mafiosa (tanto che non figura nell’addebito penale né l’aggravante mafiosa, né tantomeno la fattispecie associativa, limitandosi alla contestazione del concorso di persone nel reato, strutturalmente dissimile dalla figura associativa in punto di composizione e stabilità del programma criminoso) e la sua attività di barbiere nel Comune di -OMISSIS- (in via del tutto ipotetica e congetturale, si sarebbe potuto opinare diversamente ove fosse risultato dall’apparato argomentativo che l’attività di smercio illecito di sostanze stupefacenti avveniva nei locali dell’impresa). Per converso, l’assoluta estraneità dell’attività artigianale condurrebbe, in via altrettanto ipotetica, ad avvalorare la tesi alternativa che questa fosse (e sia) l’unica fonte di proventi leciti che avrebbe potuto (e potrebbe) assicurare al prevenuto l’osservanza dei canoni dell’honeste vivere e dell’alterum non laedere quali generalissimi precetti giuridici tramandati dal digesto giustinianeo sino a trasfondersi oggigiorno nelle prescrizioni che corredano di norma le misure di prevenzione personali.

…Prognosi inferenziale del rischio di infiltrazione

“Indagando ulteriormente la struttura logica della prognosi inferenziale sul rischio infiltrativo ex art. 91, co. 6 d.lgs. n. 159/2011 si deve osservare ulteriormente che essa presenta un fondamento irriducibilmente pluralista nel senso che le argomentazioni dell’autorità prefettizia devono prendere le mosse da una pluralità di indizi “gravi, precisi e concordanti” dai quali poter inferire, su base probabilistica, la sussistenza della permeabilità mafiosa (v. per tutte, Cons. Stato, sez. III, 4 gennaio 2024, n. 142; Cons. Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743), mentre non trova diritto di cittadinanza nel diritto positivo il sillogismo inferenziale a base monista, ossia l’inferenza che desuma il rischio di contagio dalla sola condanna per reato strumentale all’attività dell’organizzazione criminale (non delitto-spia) avulsa da altri elementi che corroborino il giudizio prognostico.

…Indebita estensione del sospetto di “contagio mafioso”

I dubbi sulla tenuta di legittimità del provvedimento, e del pedissequo avallo giurisdizionale di prime cure, prendono ulteriormente corpo ove si ponga mente al fatto che l’informativa prefettizia risulta adottata a seguito della richiesta del Comune di -OMISSIS-, ente sciolto per infiltrazione mafiosa ai sensi dell’art. 143 d.lgs. n. 267/2000 e, dunque, ai sensi dell’art. 100 del codice antimafia secondo il quale “l’ente locale, sciolto ai sensi dell’articolo 143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, deve acquisire, nei cinque anni successivi allo scioglimento, l’informazione antimafia precedentemente alla stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell’articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi”. In altre parole, la ratio preventiva sottesa alla informazione antimafia è estesa, in un’ottica prudenziale, a tutto il mondo delle licenze commerciali nell’ipotesi in cui l’ente locale tenuto al rilascio sia stato sciolto per infiltrazioni o condizionamenti di tipo mafioso sull’implicito postulato che tali procedimenti possano risentire del “contagio” mafioso che ha interessato l’ente attinto dalla misura dissolutoria. Ne riviene che tale dilatazione del campo applicativo della già invasiva misura prevenzionale dell’informativa antimafia non può abdicare al presidio di legalità riconducibile in primis all’osservanza del disposto dello ius positum, a pena di proiettare la figura verso quel paventato diritto del sospetto nel quale la potestà discrezionale dell’autorità rischia di sconfinare nel puro arbitrio  (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 febbraio 2024, n. 1282; Cons. Stato, sez. III, n. 6105/2019: “il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali “unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata””). Presidio di legalità, formale e sostanziale, che esige rinnovato rigore nella illustrazione logico-argomentativa dei concreti elementi sintomatici del rischio infiltrativo“.

…L’elevata discrezionalità del potere interdittivo non può trasmodare in arbitrio

Da ultimo, preme rimarcare che la defaillance motivazionale del provvedimento si profila pienamente censurabile da parte di questo giudice, a mente del noto limite di sindacato che caratterizza lo scrutinio giurisdizionale su provvedimenti di eminente spessore discrezionale come, appunto, le interdittive antimafia, in piena sintonia con la consolidata giurisprudenza della Sezione (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 17 ottobre 2023, n. 9016: “L’informativa antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa; il giudice amministrativo è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della interdittiva. Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una ‘pena del sospetto’ e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio”).

…Rilievo delle sopravvenienze giudiziarie

Ad abundantiam, giova da ultimo soffermarsi sulle successive sopravvenienze giudiziarie che hanno interessato la posizione del -OMISSIS-, a completamento della disamina complessiva sulla prognosi infiltrativa svolta sull’impresa individuale. Si deve rimarcare in punto di principio che le sopravvenienze, di diritto o di fatto che siano, non inficiano lo scrutinio di legittimità del provvedimento prefettizio in materia di prevenzione antimafia, essendo questo unicamente sindacabile alla luce del compendio fattuale e documentale disponibile all’epoca in cui fu emesso in ossequio al generale canone interpretativo-applicativo del tempus regit actum che ispira l’agere amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. III, 12 settembre 2023, n. 8269: “La legittimità dell’informativa antimafia interdittiva, al pari di ogni altro provvedimento amministrativo, va scrutinata sulla base dello stato di fatto e di diritto sussistente al momento della sua adozione, alla stregua del principio tempus regit actum”).

Nondimeno, non può trascurarsi, nell’ambito della delibazione generale che si è svolta sinora sulla tenuta argomentativa del provvedimento impugnato, che la Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria ha respinto in data 4 maggio 2022 la proposta avanzata dalla locale Questura di applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno di due anni, osservando in via dirimente che difetta il requisito dell’abitualità non essendo comprovabile che il proposto abbia eletto l’attività delittuosa a suo paradigma di vita e che non è sufficiente una sola imputazione, conclusasi con una condanna contenuta e soprattutto scevra da connotazioni mafiose, a fondare un giudizio di pericolosità sociale qualificata dalla asserita appartenenza o prossimità ad una consorteria criminale di stampo mafioso-‘ndranghetista“.

Esito del giudizio

Tutto ciò considerato, l’appello deve trovare accoglimento con riforma della sentenza impugnata e fatte salve le nuove determinazioni che reputerà di assumere l’Amministrazione a seguito di un più compiuto iter istruttorio e motivazionale che dia conto della sussistenza o meno, quale indefettibile presupposto normativo, di “concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata“.

Commento

La sentenza oggetto di questo post è per certi versi sorprendente.

È nella consapevolezza di chiunque abbia seguito nel tempo la giurisprudenza della terza sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, competente funzionalmente nella materia delle informazioni interdittive antimafia, che le sue decisioni fossero improntate al massimo rigore e ad una valorizzazione piuttosto “generosa” delle motivazioni prefettizie, anche nei non rari casi in cui queste estendevano fino ai confini più estremi il concetto di pericolo presunto già largo di suo nella formulazione vigente dell’art. 84, comma 3, Codice antimafia, laddove è ancorato alla sussistenza di “eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa“.

Un’espressione, questa, che, a dispetto delle tante rassicurazioni offerte nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa, possiede un indiscutibile quantum di indeterminatezza e consente all’autorità competente di intervenire non solo allorché taluno stia compiendo atti idonei diretti in modo non equivoco ad infiltrarsi in un organismo d’impresa per scopi mafiosi ma anche quando, non essendo stato avviato il tentativo, vi sia il pericolo del suo avvio. 

Si comprende bene che una formulazione del genere crea fisiologicamente il rischio di ipotesi giustificate da congetture piuttosto che da corrette sequenze probabilistiche.

Ebbene, con la decisione di cui si parla il Consiglio di Stato afferma che ci sono dei limiti e degli oneri probatori irrinunciabili anche in una materia che rappresenta una sorta di “Ultima Thule” per la sfida immanente che porta al principio di tassatività delle fattispecie.

Non può che far piacere.