Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 8911/2021, udienza del 4 febbraio 2021, offre una ricostruzione sistematica del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto.
Le coordinate ermeneutiche delineate dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento al reato di accesso abusivo a sistema informatico protetto hanno, in linea di continuità e di progressiva specificazione, precisato tanto gli elementi costitutivi del reato, che i rapporti tra il primo ed il secondo comma dell’art. 615-ter cod. pen.
Sezioni unite Casani del 2011
Come noto, già con la sentenza Casani (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 – dep. 2012, Rv. 251269), le Sezioni unite hanno puntualizzato come integri il delitto previsto dall’art. 615-ter cod. pen. la condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema.
Sezioni unite Savarese del 2017
Muovendo nella prospettiva del principio già affermato, Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061 ha precisato come integri il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita. Con la citata decisione, le Sezioni unite, ricomponendo il contrasto insorto sul “se il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen., sia integrato anche nella ipotesi in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative”, hanno privilegiato l’interpretazione più estensiva, già oggetto di numerose pronunce, secondo la quale è penalmente rilevante anche la condotta del soggetto che, pur essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite.
A tal fine, il supremo consesso ha valorizzato il fondamento di ragione della norma incriminatrice, precisando che la fattispecie in esame punisce non soltanto l’abusiva introduzione nel sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione), ma anche l’abusiva permanenza in esso contro la volontà del titolare dello ius excludendi e che, nel caso in cui il titolo di legittimazione all’accesso venga utilizzato dall’agente per finalità diverse da quelle consentite, deve ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà del titolare del diritto di esclusione, in tal modo venendosi a precisare quanto già evincibile da Sezioni unite Casani in riferimento alla (ir)rilevanza della violazione di specifiche disposizioni che disciplinano l’accesso al sistema. In particolare, la sentenza Savarese ha approfondito e ‘specificato il concetto di “operazioni ontologicamente estranee” a quelle consentite, nei casi in cui la condotta criminosa sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, evocando sia l’art. 1 della L. 241 del 1990, che gli artt. 54, 97 e 98 della Costituzione.
Nel sancire il principio di diritto richiamato, il supremo consesso si è comunque collocato nel solco di Sezioni unite Casani, dal quale era già evincibile come fosse sufficiente, per integrare la fattispecie penale, che il soggetto avesse travalicato i limiti propri dell’autorizzazione che gli era stata concessa (il soggetto agente — così Sezioni unite Casani — è penalmente responsabile «sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema [….] sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito»), in continuità con l’orientamento giurisprudenziale precedente (come ricostruito da Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Rv. 274406).
Rapporto tra primo e secondo comma dell’art. 615-ter
Il tema dei rapporti tra il primo ed il secondo comma della norma in disamina è stato, ulteriormente e coerentemente, approfondito negli arresti successivi.
Si è, così, precisato come la fattispecie di cui l’art. 615-ter, comma primo, cod. pen., che punisce la condotta del soggetto che, abilitato all’accesso, violi le condizioni ed i limiti dell’autorizzazione, non è integralmente sovrapponibile all’ipotesi aggravata di cui al comma secondo, n. 1) del medesimo articolo, che richiede che tale violazione sia commessa da un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (V. Sez. 5, n. 25944 del 09/07/2020, Rv. 279496, in motivazione), e che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante predetta, non è sufficiente la mera qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo, ma è necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato (Sez. 5, n. 72 del 20/11/2020 – dep. 2021, Rv. 280144).
Siffatti enunciati fondano sul rilievo per cui la circostanza aggravante in parola risulta fondata non già sulla mera qualità di pubblico ufficiale dell’agente, bensì sull'”abuso dei poteri” o sulla “violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”, analogamente a quanto previsto con riferimento all’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 9 cod. pen., che richiede l’abuso dei poteri – l’uso del potere per fini diversi da quelli collegati alle attribuzioni pubbliche – e la violazione degli specifici doveri ad esso inerenti, con la conseguenza che la posizione qualificata del soggetto attivo deve avere quantomeno agevolato il reato (V. Sez. 5, n. 9102 del 16/10/2019, dep. 2020, Rv. 278662; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, Rv. 273531). In altri termini, né la qualità rivestita dal soggetto agente, né l’abuso di tale qualità fondano ex se il profilo aggravante del fatto tipico, che invece si giustifica in presenza di un abuso potere in quanto teleologicamente orientato a scopi diversi da quelli collegati alle attribuzioni pubbliche.
Rigetto delle censure del ricorrente
…Non necessaria una violazione specifica delle prescrizioni di accesso, diversa e ulteriore rispetto alla finalizzazione extra-
funzionale
Nel quadro così delineato, le censure svolte dal ricorrente s’appalesano non conducenti.
Il ricorso propone una ricostruzione della fattispecie che, predicando la necessità di una violazione specifica delle prescrizioni di accesso, diversa ed ulteriore rispetto alla finalizzazione extra-funzionale – come precisato nel secondo motivo nuovo – finisce con l’introdurre un elemento ultroneo ai fini della rilevanza penale del fatto, nei condivisibili termini sopra ricostruiti.
La sentenza impugnata ha dato ampiamente atto dell’assenza di alcun profilo, funzionalmente riconducibile a ragioni di ufficio, degli accessi allo SDI operati dall’imputato attraverso le proprie credenziali, in tal guisa giustificando tanto l’ontologica estraneità delle motivazioni della consultazione rispetto alle finalità d’ufficio, che l’abuso della pubblica funzione ricoperta, non solo agevolatrice, ma infungibilmente necessaria per l’acquisizione dei dati: ad eccezione del primo accesso dell’8 settembre 2010, motivato da ragioni d’ufficio, risultano ben nove consultazioni successive, prive di adeguata giustificazione, ed anzi analiticamente ricondotte all’interesse di tenere informato S. – con il quale, per stessa ammissione dell’imputato, il medesimo aveva avviato un personale rapporto d’amicizia – dell’eventuale presenza di iscrizioni allo stesso relative.
Né la motivazione presta il fianco alle censure che le vengono rivolte in riferimento alla svalutazione delle giustificazioni rese dall’imputato che, nel rivendicare un perdurante interesse investigativo relativamente ad un soggetto con il quale afferma di intrattenere relazioni amicali, finisce per introdurre un irriducibile profilo di contraddittorietà rispetto alla finalità divulgativa degli esiti degli accessi, comprovata dall’intercettazione già richiamata, e autonomamente contestata nel capo b) della rubrica.
…Irrilevanza della pregressa conoscenza della notizia da parte del destinatario della rivelazione
Il ricorrente assume l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 326 cod. pen. per essere l’informazione propalata – all’esito dell’accesso abusivo allo S.D.I. temporalmente coincidente – già nota al destinatario, mentre la rassicurazione circa l’inesistenza di ulteriori iscrizioni sarebbe una “non notizia”, e dunque un dato neutro, come tale inoffensivo del bene tutelato. Il tema che la censura impone, prioritariamente, di affrontare è, dunque, se la comunicazione di quanto risulti dallo S.D.I. – sistema informatico interforze CED – SDI, che contiene la banca dati di tutte le informazioni acquisite dalle forze di polizia nel corso di attività amministrative e di prevenzione o repressione dei reati – al di fuori di qualunque autorizzazione, e per soddisfare la richiesta informale di un privato cittadino interessato, costituisca o meno rivelazione di “notizia di ufficio che debba rimanere segreta”.
…Segretezza dei dati contenuti nel sistema CED-SDI
Il vincolo di segretezza sui dati contenuti nel sistema informatico interforze CED – SDI trova fondamento nell’art. 8 L. 1° aprile 1981, n. 121.
Il Centro Elaborazione Dati (CED) è stato istituito con la norma richiamata a fini di coordinamento della raccolta, classificazione, analisi e valutazione delle informazioni in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità (art. 1, comma 1, decreto legislativo 18/5/2018, n. 51).
I dati previsti dagli artt. 6, lett. a), e7 della stessa legge (in materia di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità, risultanti da documenti conservati dalla pubblica amministrazione o da enti pubblici, o risultanti da sentenze o provvedimenti dell’autorità giudiziaria o da atti concernenti l’istruzione penale acquisibili ai sensi dell’art. 165-ter cod. proc. pen. o da indagini di polizia), sono custoditi nel Sistema D’Indagine (SDI) e messi a disposizione delle Forze di Polizia.
L’esclusiva destinazione della banca dati alle forze di polizia rende il sistema “chiuso”, accessibile soltanto da postazioni di lavoro certificate, che consentono l’acquisizione delle informazioni in sede locale utilizzando una rete intranet, esclusivamente da parte di persone debitamente autorizzate dal Funzionario/Ufficiale Responsabile, e previa abilitazione di un apposito profilo, diversificato a seconda delle informazioni che il personale deve conoscere, in ragione delle mansioni da svolgere, avuto riguardo anche all’incarico ricoperto. L’ermeneusi letterale dell’enunciato normativo esclude ex se, in linea generale, che sia consentita la comunicazione informale di quanto risulta dalla banca dati, anche laddove la richiesta pervenga dal diretto interessato, che non è titolare di un diritto incondizionato a ricevere informazioni, se non nei limiti e con le forme previste dalla legge: ai sensi dell’art. 10 del D. Lgs. 18 maggio 2018 n. 51, con particolare riguardo al sistema di trattamento dei dati personali e in adempimento di quanto previsto dall’art. 10 legge 1/4/1981, n. 121, comma 3, e dall’art. 48 del Decreto legislativo 18/05/2018 n. 51, di attuazione della Direttiva UE 2016/680, relativo alla protezione dati di persone fisiche nei trattamenti di dati personali per finalità di polizia, gli interessati possono inoltrare una richiesta scritta relativa al trattamento dei loro dati personali, eventualmente presenti nel predetto CED.
I dati personali presenti nel CED possono essere comunicati alle sole persone cui si riferiscono, o al loro rappresentante legale designato con apposita delega, e sono accessibili solo ai soggetti indicati da specifiche norme di legge. La legge riserva, dunque, esclusivamente alle Forze di polizia la comunicazione delle informazioni concernenti eventuali iscrizioni nella banca dati, previa formale richiesta, salvi gli atti di indagine compiuti dall’autorità amministrativa nella funzione di polizia giudiziaria, che sono soggetti a segreto istruttorio ex art. 329 cod. proc. pen. e, conseguentemente, sottratti all’accesso. Ne viene che solo le Forze di polizia possono fornire notizia circa eventuali iscrizioni a carico, sempre che l’interessato ne abbia fatto espressa richiesta e previa autorizzazione alla relativa comunicazione, con la conseguenza per cui fino al rilascio di siffatta autorizzazione, la notizia in ordine all’esistenza di iscrizioni a carico è segreta anche nei confronti del diretto interessato (Sez. 6, n. 14931 del 30/01/2018, Rv. 272760; N. 50438 del 2015 Rv. 265860).
…Nozione di notizie di ufficio che devono rimanere segrete
Sotto l’ultimo profilo evocato, va ulteriormente ribadito come la nozione di “notizie di ufficio che devono rimanere segrete” non sia limitata alle informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma si estenda anche a quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, perché effettuate senza il rispetto delle modalità previste (ex multis Sez. 6, n. 19216 del 04/11/2016 – dep. 2017, Rv. 269776). Nella pronuncia indicata, si è valorizzata l’oggettività giuridica dell’art. 326 cod. pen., individuata nella tutela del normale funzionamento della pubblica amministrazione, quale proiezione dei principi costituzionali contenuti nell’art. 97 Cost., e che si estrinseca anche con l’osservanza del segreto d’ufficio inerente al rapporto funzionale tra il pubblico funzionario e l’amministrazione di appartenenza, in tal modo giustificando (tanto più quando il segreto concerne indagini penali) il sacrificio dell’esigenza di conoscibilità, che esprime il principio della pubblicità dell’azione dei pubblici poteri, e delineando un ambito del “segreto d’ufficio” non limitato gli “atti segreti”.
Richiamando l’art. 28 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – che ha sostituito l’art. 15 del d.P.R. n. 3 del 1957 (T. U. degli impiegati civili dello Stato) – si è osservato come la legge non si limita a porre l’obbligo per l’impiegato pubblico di “mantenere il segreto d’ufficio”, ma ne definisce anche l’ambito e l’estensione, specificando che l’impiegato “non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso”, da tanto evincendo che il divieto di divulgazione (e di utilizzo) comprende non solo informazioni sottratte all’accesso, ma anche, nell’ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti, o rese senza il rispetto delle modalità previste (ex multis Sez. 6, n. 9409 del 09/12/2015, dep. 2016, Rv. 267274; n. 15950 del 2015 Rv. 263590), in quanto è lo stesso art. 326 cod. pen. che, per definire l’ambito della condotta, rinvia alla “violazione di doveri inerenti alle funzioni o al servizio”.
Nella delineata prospettiva, oggetto materiale del delitto di rivelazione di segreti d’ufficio sono sia le notizie d’ufficio coperte dal segreto, sia quelle indebitamente svelate a chi non è titolare del diritto di accesso agli atti amministrativi o senza il rispetto delle modalità previste (Sez. 1, n. 8201 del 18/02/2010, Rv. 246623). Sotto altro profilo, è stato coerentemente rimarcato (Sez. 6, n. 33256 del 19/05/2016, Rv. 267870) come nell’orbita della sfera di tutela rientri non solo il buon funzionamento dell’amministrazione e il dovere di fedeltà del funzionario, ma anche l’interesse a che quest’ultimo non tragga dall’esercizio delle sue funzioni un indebito vantaggio rispetto agli altri cittadini, sicché integra la fattispecie prevista dall’art. 326, comma terzo, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che utilizza illegittimamente notizie, acquisite per ragioni di ufficio, anche solo suscettibili di arrecare pregiudizio alla P.A.
Del resto, la tutela delle informazioni accessibili ai terzi solo mediante apposito iter procedimentale è valore tanto prioritario da essere tutelato anche laddove l’acquisizione delle notizie sia lecita, assumendo, in tal caso, il fatto rilevanza penale ai sensi dell’art. 12 I. n. 121 del 1981 (ex multis n. 14931 del 2018, Rv. 272760, cit.).
…Ricorrenza del reato anche quando sia rivelata l’inesistenza di iscrizioni nel registro delle notizie di reato
Alla luce del tracciato ermeneutico ripercorso, il tema investe, allora, se siffatti principi debbano essere ribaditi anche laddove la comunicazione riguardi – come nel caso di specie – l’inesistenza di iscrizioni ulteriori e diverse rispetto a quelle già note al soggetto interessato, ovvero se anche per queste restano impregiudicati i vincoli di segretezza e gli oneri di accesso posti dal legislatore a salvaguardia del bene interesse del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. In altri termini, il focus si incentra sul se la conferma dei dati già noti all’avente diritto e la propalazione della inesistenza di ulteriori iscrizioni fondi il pericolo concreto di lesione degli interessi tutelati, e se la condotta accertata nel presente processo abbia determinato un pregiudizio per il bene giuridico tutelato dall’art. 326 cod. pen., e, quindi, se risulti, in concreto, l’assenza di offensività quale limite alla sussistenza della fattispecie incriminatrice, evocata dalla difesa.
…Non è necessaria la dimostrazione di un effettivo pregiudizio per le investigazioni
Muovendo nel solco tracciato da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 – dep. 2012, Casani, Rv. 251271, l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità ha costantemente ribadito come, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 326 cod. pen. con riferimento alla rivelazione di notizie d’ufficio attinenti a procedimenti in fase di indagini, non sia necessaria la prova dell’esistenza di un effettivo pregiudizio per le investigazioni, posto che il delitto in questione è reato di pericolo concreto che tutela il buon andamento della amministrazione, il quale si intende leso allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio a quest’ultima o ad un terzo (così Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Rv. 231166, ma anche Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Rv. 238729). Nella delineata prospettiva, anche la sostanziale infondatezza della notizia non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 326 c.p., poiché la rivelazione è penalmente irrilevante solo se si tratta di informazioni di pubblico dominio (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 – dep. 2020, Rv. 279555) o prive di significato e non quando i fatti si rivelino inconferenti o privi di fondamento (Sez. 6, n. 33609 del 18/06/2010, Rv. 248270).
A tanto aggiungasi come costituisce principio consolidato quello secondo cui, quando è la legge a prevedere l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato di cui all’art. 326 cod. pen. sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto (così Sez. 6, n. 42726 del 11/10/2005, Rv. 232751, espressamente richiamata da Sez. 6, n. 33256 del 19/05/2016, Rv. 267870, cit, ma anche, in motivazione, e con diretta rilevanza ai fini della decisione, da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251271, cit).
Nel quadro così delineato – ed in riferimento alla comunicazione della mancanza di iscrizioni nel registro delle notizie di reato – la Suprema Corte ha anche affermato come il reato sia integrato anche se l’informazione fornita sia quella della non rinvenibilità di iscrizione a carico del richiedente, in relazione ad uno specifico procedimento, secondo quanto emerge dalla visione degli atti e delle annotazioni accessibili all’ufficio di cui fa parte il funzionario propalante (Sez. 5, n. 24583 del 18/01/2011, Rv. 249821; n. 49526 del 2017, Rv. 271565 cit.), in quanto ciò che assume rilievo è la rivelazione di quanto è desumibile dai registri consultabili, mentre «Non appare neutra la notizia che non risultano iscrizioni, perché a norma di legge – art. 110-bis disp. att. cod. proc. pen. – l’addetto può rispondere alla richiesta dell’interessato, avanzata secondo le procedure prescritte dalla legge, soltanto con la formula “Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione”, formula quest’ultima che lascia impregiudicato il potere del pubblico ministero di secretazione».
Il principio richiamato trova applicazione in riferimento alle iscrizioni nella banca dati SDI, anche in tal caso residuando – come rilevato – margini di secretazione, quando le iscrizioni a carico di un soggetto abbiano dato luogo ad un procedimento penale.
Del resto, anche la dottrina finisce per convenire sulla lettura accolta nella giurisprudenza di legittimità. Quando l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto discende da una previsione di legge, il bene giuridico tutelato dall’art. 326, primo comma, cod. pen. è anche l’imparzialità della pubblica amministrazione, in linea con quella che è ritenuta l’oggettività giuridica di categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Può ritenersi, in altri termini, che la fattispecie incriminatrice in questione sia funzionale anche ad evitare che un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio procuri un indebito trattamento di favore ad una persona, fornendole notizie che alla stessa, come alla generalità dei cittadini, sono precluse o, eventualmente, potrebbero essere fornite solo nel rispetto di formali procedure ed all’esito di una valutazione dell’autorità competente. Tale conclusione, del resto, risulta coerente rispetto alla complessiva tutela penale del segreto di ufficio, in considerazione dei rapporti intercorrenti tra la fattispecie prevista dall’art. 326, primo comma, cod. pen., e le fattispecie di cui all’art. 326, terzo comma, cod. pen., che sanzionano penalmente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che «si avvale illegittimamente di notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete» al fine di procurare ad altri un ingiusto profitto patrimoniale o “non” patrimoniale. In tal senso, è stato affermato che la rivelazione da parte del pubblico agente di un segreto di ufficio, anche laddove sia compiuta per fini di utilità patrimoniale e in adempimento di una promessa corruttiva, integra il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 cod. pen., eventualmente in concorso con il delitto di corruzione, mentre ricorre la diversa fattispecie prevista dal terzo comma della stessa disposizione quando il pubblico ufficiale sfrutti, a scopo di profitto patrimoniale o non patrimoniale, lo specifico contenuto economico e morale, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione (Sez. 6, n. 4512 del 21/11/2019 – dep. 2020, Rv. 278326; N. 9409 del 2016 Rv. 267273, N. 37559 del 2007 Rv. 2374): «Il coordinamento delle due previsioni porta a concludere, e per motivi letterali (rivela – si avvale) e per motivi sistematici (concorso con la corruzione) e per motivi teleologici (superfluità altrimenti della previsione del terzo comma), nel senso che la condotta del pubblico ufficiale che riveli un segreto di ufficio è esaustivamente prevista nel primo comma […]» (così Sez. 6, n. 37599 del 27/09/2007, Rv. 237447, ripresa recentemente, tra le altre, da Sez. 6, n. 9409 del 09/12/2015 – dep. 2016, Rv. 267273). Ne viene che l’attrazione nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 326, primo comma, cod. pen. di tutte le condotte di rivelazione di notizia coperta da segreto, pur se caratterizzate dalla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, sembra offrire una conferma che la disposizione appena citata è posta a presidio anche del bene giuridico dell’imparzialità dell’amministrazione. Nella prospettiva indicata, allora, il principio di offensività assume un ruolo di limite alla configurabilità del reato di rivelazione di segreto di ufficio solo con riferimento a notizie che siano futili o insignificanti avendo riguardo sia al principio del buon andamento, sia al principio di tutela dell’imparzialità dell’azione dell’autorità pubblica.
Applicazione delle coordinate interpretative al caso oggetto di ricorso
Nel quadro così delineato, la notizia rivelata nella vicenda in esame – e cioè, il contenuto delle risultanze della banca dati SDI consultabili dall’ufficio della Guardia di finanza presso cui l’imputato prestava servizio – ha investito un duplice profilo: da un lato, essa si è risolta nella conferma della esistenza di una iscrizione già nota al destinatario; dall’altro, l’informazione si è estesa alla insussistenza di elementi ulteriori risultanti dallo SDI.
La propalazione ha, dunque, avuto ad oggetto anche informazioni ulteriori rispetto a quelle già note, e per le quali il divieto di comunicazione è – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale – imposto dalla legge. Quanto all’assenza di ulteriori iscrizioni, si è già rilevato come l’informazione assuma un qualificato profilo di offensività, poiché, laddove eventuali annotazioni avessero avuto ad oggetto fatti suscettibili di iscrizione nel registro delle notizie di reato, ai sensi dell’art. 110-bis disp. att. cod. proc. pen., l’addetto avrebbe dovuto rispondere alla richiesta dell’interessato, avanzata secondo le procedure prescritte dalla legge, soltanto con la formula “Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione”, formula quest’ultima che lascia impregiudicato il potere del pubblico ministero di secretazione. Né può dirsi che l’informazione fornita riguardasse una notizia insignificante avendo riguardo sia al buon andamento sia all’imparzialità dell’amministrazione, in quanto il dato era relativo alla complessiva posizione del richiedente, evidentemente coinvolto in indagini penali, e non solo al contenuto dell’iscrizione già nota, fornendo un’indicazione logistica tale da esporre, in concreto, al pericolo di pregiudizio per la segretezza gli ulteriori sviluppi investigativi.
Principio di diritto
Deve esse, pertanto, affermato il principio per cui la rivelazione di notizie acquisite dalla banca dati S.D.I. e comunicate, in assenza delle prescritte formalità, integra il reato di cui all’art. 326 cod. pen. anche quando consistano nella propalazione dell’assenza di annotazioni.
