È ingiusta la detenzione patita per il ritardo con cui il giudice dell’esecuzione deposita una decisione che determina la scarcerazione del detenuto (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 10671/2024, camera di consiglio del 13 dicembre 2023, ha affrontato un caso di ingiustizia sopravvenuta di un ordine di esecuzione di pena determinato da ritardi del giudice dell’esecuzione.

La vicenda giudiziaria e il ricorso per cassazione

Un detenuto aveva presentato in data 7 dicembre 2020 un’istanza di applicazione della continuazione in sede esecutiva con riferimento ad alcune delle sentenze di condanna comprese in un ordine di esecuzione di pena emesso nei suoi confronti il 17 giugno 2020.

La relativa udienza camerale era stata tenuta il 26 febbraio 2021 di fronte alla Corte territoriale competente la quale aveva riservato la decisione per poi emetterla il 26 agosto 2021, accogliendo l’istanza e per l’effetto riducendo la pena da espiare da due anni e due mesi di reclusione e due mesi di arresto ad un anno, tre mesi e dieci giorni di reclusione.

Nelle more, peraltro, in data 27 maggio 2021 il tribunale di sorveglianza aveva riconosciuto all’interessato un periodo di 45 giorni a titolo di liberazione anticipata grazie al quale questi era stato scarcerato il medesimo giorno.

Di seguito il condannato ha chiesto la riparazione da ingiusta detenzione per il periodo compreso tra il 3 marzo 2021 e la data della sua scarcerazione, osservando a tal fine che, se il giudice dell’esecuzione avesse deciso l’istanza di continuazione entro il termine ordinatorio di cinque giorni previsto dall’art. 128 cod. proc. pen., sarebbe stato posto in libertà allo scadere di quel termine senza essere costretto a rimanere in detenzione carceraria fino al procedimento del tribunale di sorveglianza.

Il giudice della riparazione ha accolto l’istanza ma il suo provvedimento è stato oggetto di ricorso per cassazione da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze il quale ha essenzialmente dedotto che nel caso di specie il giudice dell’esecuzione non aveva violato alcuna disposizione di legge posto che la mancata osservanza di un termine ordinatorio non può implicare l’illegittimità dell’ordine di esecuzione di pene concorrenti.

La decisione della Corte di cassazione

Il collegio afferma di condividere il criterio interpretativo prevalente che impone di riconoscere il diritto alla riparazione anche quando l’ingiustizia della detenzione derivi da vicende successive alla condanna connesse all’esecuzione della pena, purché non derivanti da dolo o colpa del condannato che abbiano causato o concorso a causare errori o ritardi nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la data corretta del termine di espiazione (Sez. 4^, sentenza n. 17118/2021) e con la precisazione che la detenzione senza titolo legittimante la riparazione sussiste solo qualora si verifichi violazione di legge da parte dell’autorità precedente e non anche quando la discrasia tra pena definitiva e pena irrogata consegua all’esercizio di un potere discrezionale (Sez. 4^, sentenza n. 25092/2017).

Tale indirizzo si fonda sulla distinzione tra il piano dell’irrevocabilità della condanna e quello della definitività della pena. Nel sistema processuale vigente, infatti, i concetti di pena definita da pronuncia irrevocabile e quello di pena definitiva – dovendosi intendere tale solo quella determinata all’esito della complessiva gestione giudiziale del trattamento sanzionatorio – non sono coincidenti (Sez. 4^, sentenza n. 57203/2017).

Ne deriva che nel caso di specie non si può qualificare come ingiusta una detenzione sofferta in eccedenza rispetto alla pena in conseguenza dell’esercizio del potere discrezionale esercitato dal giudice dell’esecuzione che ha riconosciuto il vincolo della continuazione tra reati oggetto di sentenze diverse poiché la detenzione patita in eccesso è una conseguenza fisiologica della rideterminazione della pena in sede esecutiva.

Nel caso in esame, tuttavia, è stata riconosciuta ingiusta non la detenzione in eccesso subita per effetto del riconoscimento della continuazione bensì quella subita in eccedenza in conseguenza del tempo intercorso tra la data in cui il provvedimento decisorio in esito all’udienza camerale avrebbe dovuto essere depositato e quella in cui è stato effettivamente depositato.

La valutazione compiuta dalla Corte nel provvedimento impugnato, secondo la quale il notevole ritardo con cui i giudici avevano sciolto la riserva assunta all’udienza e depositato l’ordinanza con cui era stata riconosciuta la continuazione aveva determinato l’ingiustizia della detenzione sofferta in tale periodo appare coerente e non censurabile.

L’art. 128 cod. proc. pen. impone infatti al giudice di depositare in cancelleria i provvedimenti assunti a seguito di udienza camerale entro cinque giorni dalla deliberazione.

Si tratta di un termine in via generale ordinatorio al cui rispetto il giudice è tenuto ai sensi dell’art. 124 cod. proc. pen. che impone ai magistrati di osservare le norme del codice di rito anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale.

Laddove, come nel caso in esame, il provvedimento sia stato depositato a distanza di mesi, senza che fossero ravvisabili esigenze istruttorie o di acquisizione di atti, la carcerazione subita nel lasso di tempo intercorrente tra il momento in cui la decisione avrebbe dovuto essere assunta e quello in cui è stata effettivamente assunta deve ritenersi ingiusta.

In altri termini l’ingiustizia della detenzione deve ritenersi configurabile anche nel caso in cui vi sia stato un ingiustificato e significativo ritardo da parte dell’autorità giudiziaria nell’adozione di una decisione che determina la scarcerazione, ovvero un ritardo, imputabile eventualmente anche al personale di cancelleria o segreteria, nell’esecuzione del provvedimento di scarcerazione, posto che anche in tali casi si determina un’illegittimità sopravvenuta dell’ordine di esecuzione originario.

Il ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze è stato conseguentemente rigettato.

Commento

Tante, troppe volte, ci si imbatte in decisioni giudiziarie che affermano l’equazione tra termini ordinatori e libertà del decisore da qualunque vincolo temporale.

Poche, pochissime volte, si leggono decisioni che menzionano e valorizzano l’art. 124 cod. proc. pen. come fondativo di un dovere effettivo e non puramente simbolico dei magistrati e dei loro collaboratori di osservanza delle norme processuali.

La sentenza qui commentata non è tra queste: afferma al contrario che anche i termini ordinatori impegnano i magistrati e determinano conseguenze se ignorati in modo ingiustificato.

Il caso è semplice: un condannato è rimasto in carcere 85 giorni – tanti sono quelli tra il 3 marzo e il 27 maggio 2021 – in più del dovuto a causa del ritardo con cui il giudice dell’esecuzione ha depositato il provvedimento che, riconoscendo la continuazione richiesta dall’interessato, imponeva la revisione del precedente ordine di esecuzione della pena e la sua immediata scarcerazione.

Giustificazioni? Nessuna, dal momento che il collegio d’appello competente non ha disposto alcuna istruttoria integrativa né ha acquisito ulteriori atti rispetto a quelli di cui già disponeva in camera di consiglio.

Risultato? Un essere umano ha sacrificato tre mesi della sua vita in galera mentre avrebbe dovuto trascorrerli da libero, il Ministero dell’Economia e delle Finanze dovrà corrispondergli un’indennità che non sarebbe stata dovuta se il provvedimento fosse stato emesso nei termini, alla quale si aggiunge l’ulteriore importo per la condanna alle spese processuali correttamente imposta dalla Corte di cassazione a fronte di un ricorso rigettato.

Chi paga? Paga il condannato con il bene della libertà personale, paga lo Stato con l’indennizzo, non paga chi per pura sciatteria ha determinato il ritardo.

Funziona così ma almeno possiamo rendere merito ad una decisione per aver detto che il re è nudo.