Requisiti per la configurabilità della scriminante di cui all’art. 393-bis c.p. a fronte di un comportamento oggettivamente illegittimo del pubblico agente (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 6 con la sentenza numero 9687/2024 ha stabilito che in riguardo alla scriminante di cui all’art. 393-bis cod. pen., in linea con l’interpretazione offerta dal Giudice delle leggi (Corte cost., n. 140 del 1998), si ritiene che la reazione del privato può dirsi giustificata a fronte di un comportamento oggettivamente illegittimo del pubblico agente che si presenti disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, anche solo per le modalità scorrette, incivili e sconvenienti di attuazione.

È noto come il profilo maggiormente problematico della causa di non punibilità prevista dall’art. 393 bis cod. pen. riguarda storicamente il concetto di “atto arbitrario”, che costituisce la modalità con la quale il pubblico funzionario deve eccedere le proprie competenze per rendere legittima l’altrui reazione.

Ripercorriamo la questione con l’ausilio della sentenza della Cassazione Sez. 6, n. 7255 del 26/11/2021, dep. 2022, Rv. 282906.

Secondo un primo consolidato orientamento di legittimità, cui aderisce anche parte della dottrina, l’eccesso arbitrario non si esaurisce nella mera illegittimità dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale, ma richiede un elemento ulteriore, soggettivamente caratterizzante il suo agire; l’atto, per potersi definire “arbitrario”, deve manifestare “malanimo, capriccio, settarietà, prepotenza, sopruso ed altri simili motivi” e, comunque, esprimere “il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale dei limiti e delle modalità entro cui le pubbliche funzioni debbono essere esercitate” (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 45245 del 25/10/2021, Rv. 282422; Sez. 6, n. 25309 del 19/05/2021, Rv. 281955; Sez. 6, n. 11005 del 05/03/2020, Rv. 278715; Sez. 6, n. 5414 del 23/01/2009, Rv. 242917).

Se il legislatore, si sostiene, avesse voluto ancorare l’istituto alla sola, oggettiva contrarietà dell’atto all’ordinamento, non avrebbe inserito il riferimento agli “atti arbitrari”, ribadito, peraltro, in più occasioni; la locuzione, infatti, sarebbe stata del tutto pleonastica, se non addirittura tautologica, se l’analisi avesse dovuto essere limitata soltanto al profilo dell’illegittimità dell’atto.

Ne discende, secondo l’impostazione in parola, la necessità di interpretare il richiamo contenuto nella disposizione nel senso della necessità di un elemento ulteriore, che non può non interessare il profilo soggettivo del pubblico ufficiale; un atto, quindi, non solo obiettivamente illegittimo, ma anche “partecipato” dall’agente con un consapevole atteggiamento di abuso, se non con una deliberata volontà vessatoria.

Sotto altro profilo, si è aggiunto, una ricostruzione diversa della norma ne amplierebbe la portata in modo eccessivo, tale addirittura da travalicarne la ratio ispiratrice e concedere al privato una troppo generosa licenza.

In tal senso si spiega l’affermazione consolidata, secondo cui presupposto necessario per l’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 4 del d. lgt. 14 settembre 1944, n. 288, è un’attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario. (cfr. oltre alle sentenze già indicate, Sez. 6, n. 16101 del 18/03/2016, Rv. 266535; Sez. 5, n. 35686 del 30/05/2014, Rv. 260309).

In definitiva, la tesi in esame è fondata sull’assunto secondo cui il concetto di “arbitrarietà” avrebbe una sua autonomia rispetto a quello di “eccesso”, in un’ottica essenzialmente soggettiva, come consapevole volontà (e quindi malafede) del pubblico ufficiale di eccedere i limiti delle sue funzioni.

Con l’ulteriore corollario per cui l’istituto non potrà operare quando risulti che il pubblico funzionario abbia agito nella consapevolezza (pur colposamente erronea) di adempiere ad un dovere d’ufficio e, per contro, il privato abbia reagito violentemente, non essendo consapevole dell’abuso oggettivo compiuto nei suoi riguardi.

Da altra parte della giurisprudenza di legittimità si è tuttavia sottolineato come, pur nell’ambito della ricostruzione strettamente soggettiva dell’istituto, sarebbe scriminata la reazione del privato all’atto dei pubblici agenti quando questi sia realizzato con modalità non consentite dalla legge, perché provocatorie, oppure quello costituente reato (ingiurie, minacce, percosse, ecc.), oppure ancora, all’atto contrario alle norme elementari dell’educazione e del costume sociale (Sez. 6, n. 36009 del 21/06/2006, Rv. 235430); si tratta di una impostazione che, da una parte, recepisce l’indirizzo maggioritario di cui si è detto – che impone di non fermarsi alla mera illegittimità dell’atto- ma, dall’altra, tende a riempire quei vuoti di tutela che una lettura troppo soggettivista comporterebbe, pure a fronte di condotte avvertite come arbitrarie dalla coscienza sociale.

Una impostazione, quella in esame, che tende ad avvicinarsi a quanto la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare con la sentenza n. 140 del 1998.

Nell’occasione la Corte, richiamato l’orientamento consolidato di cui si è detto, ha mostrato chiaramente di non condividerlo.

Secondo la Corte costituzionale, vi sono ragioni storico – politiche che dovrebbero indurre ad una interpretazione più lata dell’esimente della reazione ad atti arbitrari, nel senso che alla norma dovrebbe essere attribuito il significato più consono alla struttura complessiva dell’ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.

Si è affermato che “il doppio richiamo, contenuto nell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale in esame, all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e agli atti arbitrari del pubblico ufficiale non impone, infatti, di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all’eccesso dalle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l’aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell’illegittimità e dell’arbitrarietà del proprio comportamento.

Anche alla stregua della stessa interpretazione letterale delle espressioni usate dall’art. 4, secondo la Corte, può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sé considerato; altrettanto plausibile è concludere, sulla scia della interpretazione prospettata dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria, che il comportamento scorretto, incivile, inurbano, sconveniente del pubblico ufficiale rende di per sé la sua condotta estranea alle funzioni e, quindi, illegittima”. Questa interpretazione è avvalorata dalla legislazione (v. ad esempio l’art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nonché l’impianto ispiratore della legge 7 agosto 1990, n. 241) che, a vario titolo, impone norme di comportamento ai pubblici impiegati o delinea principi generali dell’azione amministrativa, volti ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.

Dunque, da un lato, l’arbitrarietà dell’atto non implica necessariamente un quid pluris rispetto alla “illegittimità”, e, dall’altro, è sufficiente a qualificare come eccedenti dalle proprie attribuzioni comportamenti posti in essere in esecuzione di pubbliche funzioni di per sé “legittimi”, ma connotati da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, in quanto violativi degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l’agire dei pubblici ufficiali (cosi la Corte costituzionale).

Quella della reazione agli atti arbitrari è, secondo il Giudice delle leggi, una causa di giustificazione che opera sul piano oggettivo.

I principi fissati dalla Corte costituzionale sono stati recepiti dalla Corte di Cassazione che, in maniera condivisibile, ha affermato che l’esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta dei questi, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato (Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018,  rv. 274680; Sez. 5., 2941 del 08/11/2018, dep. 2019, Rv.275304 Sez. 6, n. 43898 del 13/09/2016, Rv. 268504; nello stesso senso, Sez. 6, n. 7918 del 13/01/2012, Rv. 252175; Sez. 6, n. 10773 del 09/02/2004, Rv. 227991).

Si tratta di una impostazione condivisibile perché, nell’ambito di una lettura oggettivistica e costituzionalmente orientata della norma – che trova il proprio fondamento nei principi affermati con chiarezza dalla Corte costituzionale – si distanzia dallo schema e dalla interpretazione tradizionali: la reazione può dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell’esercizio dell’autorità rispetto allo scopo perseguito (sul tema, anche, Sez. 6, n. 4457 del 06/10/2018, Rv. 274983 in tema di configurabilità della scriminante in forma putativa).