La Cassazione sezione 6 con la sentenza numero 8616/2024 ha ricordato che la minaccia di cui all’art. 336 cod. pen. – da apprezzare secondo una prospettiva prognostica e non ex post – deve avere un grado di serietà.
La Suprema Corte ha sottolineato che ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 336 cod. pen., l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con un giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, con la conseguenza che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato, dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato.
Tuttavia, tale caratteristica è stata, nel caso concreto, argomentata dai giudici di merito in modo completo nonché logico, e pertanto insindacabile in sede di legittimità.
Per quanto scontato, è infatti opportuno precisare che il tenore generico o meno della minaccia può essere valutato non in astratto, ma soltanto in concreto: vale a dire, alla luce delle circostanze del caso nonché delle condizioni e caratteristiche personali di chi la proferisce.
Di conseguenza, affermazioni inidonee a prospettare la seria volontà di cagionare ad altri un male ingiusto in un certo contesto, in altro contesto possono assumere, invece, una potenzialità lesiva anche spiccata.
Questo è quanto accaduto nel caso di specie.
La pronuncia di primo grado – che, incidentalmente, con quella d’appello forma un unico corpo decisionale, trattandosi di c.d. doppia conforme (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) – aveva, infatti, già ritenuto le minacce pronunciate dall’imputato non soltanto idonee, ma anche «piuttosto serie e gravemente percepite nell’occasione dai militari», provenendo da persona «ben not[a] agli stessi in quanto soggetto che annovera moltissime condanne», tra cui una definitiva per associazione di tipo mafioso nonché per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ed un’altra sempre per associazione di tipo mafioso.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, dunque, le frasi con cui questi – mutuando quasi testualmente le parole della sentenza impugnata – aveva ventilato agli operanti, se avessero eseguito il controllo, il male che avrebbe potuto loro procurare, attivando le conoscenze maturate in ambito criminale («sempre a me controllate; mi dovete lasciar perdere altrimenti va a finire male, ora chiamo il mio avvocato e vi denuncio: io mi sono fatto trent’anni di carcere con alcuni pezzi grossi e ve la faccio pagare»), a ragione sono state considerate tutt’altro che generiche o poco serie.
Ciò posto, deve inoltre rilevarsi che l’art. 336 cod. pen. delinea un reato a dolo specifico, sicché la dedotta impossibilità che le parole dell’imputato ostacolassero il compimento dell’atto d’ufficio da parte delle forze dell’ordine, essendo il ricorrente già ad esse noto, non esclude che risultino, nel caso di specie, integrati gli elementi della fattispecie, compresa la finalizzazione soggettiva della condotta.
Il disappunto sotteso alle minacce dell’imputato è, infatti, riconducibile, in tesi, all’alveo delle motivazioni, suscettibili, al limite, di incidere sul trattamento sanzionatorio (in effetti, ridimensionato dal secondo Giudice di merito); non toglie, però, che le parole pronunciate mirassero ad impedire il compimento di un atto dell’ufficio al quale le forze dell’ordine erano autorizzate e tenute.
