La Cassazione penale sezione 6 con la sentenza numero 822/2024 è tornata ad occuparsi della configurabilità dei maltrattamenti in famiglia e della linea di confine, a dir il vero molto soggettiva nella fase di merito e non solo, tra la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona senza che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile, in mancanza del quale i fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali dì una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio (Sez. 6, n. 45037 del 2/12/2010, Rv. 249036).
Ne consegue che deve escludersi la sussistenza del reato in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile, in mancanza del quale i fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali dì una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona (Sez. 6, n. 37019 del 27/5/2003, Rv. 226794).
Acclarato che la fattispecie in esame presuppone l’abitualità della condotta, deve anche considerarsi che il reato è integrato, nell’ambito di una relazione affettiva, da reiterati comportamenti, anche solo minacciati, che, valutati complessivamente ed in modo non parcellizzato, siano volti a ledere, con violenze psicologiche ed umiliazioni, la dignità e l’identità della persona offesa, limitandone la sfera di libertà ed autodeterminazione (Sez. 6, n. 37978 del 3/7/2023, n.m.).
Individuati i principi giurisprudenziali applicabili al caso di specie, si pone la necessità di stabilire se l’individuazione dei tre episodi di marcata aggressività mostrata dall’imputato esauriscano la condotta oggetto di imputazione e, se tali fatti siano idonei o meno a far ritenere il requisito dell’abitualità della condotta.
Invero, deve premettersi che la nozione di reiterazione dei comportamenti maltrattanti non è di agevole soluzione, in quanto si fonda essenzialmente su una valutazione in fatto, scissa da parametri di giudizio oggettivo.
In buona sostanza, il mero raffronto tra il dato numerico degli episodi in cui si estrinseca l’aggressività in famiglia e l’arco temporale di manifestazione di tali condotte rappresenta un mero dato empirico, trovando applicazione la massima di esperienza secondo cui quanto più gli episodi maltrattanti sono numerosi e ravvicinati nel tempo, tanto maggiore sarà l’incidenza sulla serenità dei conviventi.
Il dato relativo alla frequenza delle singole condotte, tuttavia, non deve essere valutato nella sua astrattezza, dovendosi valutare in concreto se gli episodi, per quanto intervallati da periodi di normale convivenza, siano ugualmente stati idonei ad imporre un regie di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
In buona sostanza, per stabilire la sussistenza del reato di maltrattamenti non occorre limitarsi a valutare il dato asettico costituito dal numero degli episodi lesivi e la loro frequenza, dovendosi piuttosto valutare tale condotta in relazione all’effetto che produce sulla vittima del reato.
Ne consegue che, pur in presenza di episodi di percosse e minacce intervallati da un periodo temporale apprezzabile e collocati in un arco complessivo di circa 7 mesi, non può ritenersi per ciò solo non configurabile il reato di maltrattamenti, posto che i singoli episodi ben possono costituire i momenti in cui maggiore è l’offensività della condotta, i cui effetti si continuano a produrre anche quanto l’aggressione fisica o le minacce non sono in atto.
A ben vedere, la caratteristica del reato di maltrattamenti in famiglia risiede proprio nel condizionamento che singole condotte determinano sulla quotidianità dei rapporti, rendendoli sostanzialmente improntati ad una abituale condizione di vessatorietà di uno o più membri della famiglia rispetto all’autore del reato.
Applicando tali principi al caso di specie, deve sottolinearsi come la difesa si sia limitata ad una lettura parziale della ricostruzione in fatto, stigmatizzando i tre episodi di maggiore intensità e non valutando gli elementi ulteriori dai quali desumere l’idoneità di tali singole condotte ad ingenerare quel clima di vessatorietà richiesto dall’art. 572 cod. pen.
Emblematico in tal senso il passaggio motivazione nel quale la Corte di appello dà atto che l’imputato aveva imposto un “clima persistente di paura”, specificando come il figlio della persona offesa, R.G., affermava di avere sempre paura che l’imputato potesse far del male alla madre ed al fratello più piccolo, in tal modo dimostrando come i familiari temevano continuamente per le reazioni spropositate ed aggressive dell’imputato.
Peraltro, la Corte di appello sconfessa la tesi difensiva anche sulla natura asseritamente limitata nel tempo dei singoli episodi lesivi, precisando che le percosse, lesioni e minacce si sono protratte anche per più giorni, in occasione dei tre momenti di maggior aggressività descritti dalla persona offesa.
In conclusione, pertanto, il dato di fatto restituisce uno svolgimento dell’accaduto che non può riduttivamente ricondursi a tre specifici ed isolati accadimenti, dovendosi piuttosto ritenere che vi sono stati tre momenti – ciascuno dei quali con una durata non certo istantanea – nei quali l’imputato ha raggiunto l’acme dell’aggressività.
Al contempo, la propensione dello stesso all’abuso di alcol e la conseguente tendenza ad avere atteggiamenti aggressivi ha imposto un clima di vita familiare vessatorio, anche nei periodi in cui in concreto non si sono avute manifestazioni specifiche, proprio perché i familiari erano continuamente preoccupati delle possibili condotte violente che l’imputato poteva assumere.
Le considerazioni sopra svolte consentono anche di superare la doglianza concernente la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo.
Nel momento in cui si ritiene che la condotta complessivamente posta in essere dall’imputato era idonea a generare un clima vessatoria e di timore nell’ambito del nucleo familiare, protrattosi per un periodo temporale apprezzabile e caratterizzato da episodi di particolare violenza ed aggressività, deve ritenersi la sussistenza del dolo richiesto dalla norma incriminatrice.
A tal riguardo, del resto, la Cassazione ha recentemente affermato che la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l’intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuativo e abituale, ad una serie di sofferenze, fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (Sez. 6, n. 43307 del 20/9/2023, n.m.; Sez. 3, n.1508 del 16/10/2018, dep. 2019, Rv. 274341-02).
