Pochi giorni addietro abbiamo pubblicato il post “La Metamorfosi di Kafka e gli incubi delle carceri italiane” (questo è il link per chi volesse leggerlo).
Nell’occasione abbiamo citato un recentissimo editoriale del Professore Tullio Padovani sul quotidiano L’Unità, “Il carcere buono non può esistere ma serve un limite all’illegalità ” e il suo incipit: “Devo essere sincero e lo dico con amarezza: in questo momento non abbiamo ragioni di ottimismo. Vediamo continuamente peggiorare una situazione che è già tragica; ci si chiede come possa peggiorare, ma noi rappresentiamo l’esempio concreto e vivente di come si riesca mai a raggiungere il fondo, perché il fondo sta sempre un passo più in giù“.
Che sia crisi e crisi vera è dimostrato dal passo significativo del Capo dello Stato che ha ricevuto al Quirinale Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia.
D’altronde, i numeri non mentono e quelli disponibili sull’attuale condizione carceraria italiana sono allarmanti: sovraffollamento in continuo peggioramento, detenuti morti in carcere per suicidio o altre cause in continua crescita, aumento delle patologie psichiatriche tra i ristretti, gesti di autolesionismo anch’essi in aumento.
Sullo sfondo, poi, la sostanziale incapacità del nostro sistema di esecuzione della pena di restituire alla comunità esseri umani migliori di quanto fossero in precedenza: è piuttosto vero il contrario e le statistiche sulla recidivanza sono lì a dimostrarlo.
Se questa è la cornice, diventa ineludibile il riferimento alla magistratura di sorveglianza ed alla sua capacità di far fronte alla complessità del problema.
Non certo per crocefiggerla e individuarla come unica responsabile di un dramma che riporta alle colpe di molti, quanto piuttosto per provare a comprendere come sia stato possibile arrivare a un degrado di cui sembra non vedersi la fine.
Tornano utili le parole spese da Maria Cristina Ornano, presidente del tribunale di sorveglianza di Cagliari, nel corso del suo intervento al IV congresso di AREA DG, condensato nell’articolo “Vite sospese: la crisi dell’esecuzione penale“, pubblicato su Giustizia Insieme il 30 ottobre 2023 (consultabile a questo link).
Ne riportiamo i passaggi che si sono sembrati più significativi:
“Cresce, quindi, il sovraffollamento carcerario. E questo è un problema molto serio, perché solo un carcere con numeri non elevati e di dimensioni adeguate consente di dare effettività ai principi costituzionali in materia di pena e, in particolare, al finalismo rieducativo della pena affermato dall’art. 27 Cost. con i suoi corollari: della sua umanizzazione e del minor sacrificio possibile, della personalità della pena e dell’individualizzazione del trattamento. Di converso, sovraffollamento non significa solo minor spazio pro capite disponibile, ma significa minore assistenza sanitaria, minori opportunità trattamentali e meno rieducazione e risocializzazione […]
il disagio in carcere cresce. Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84, quest’anno sono già 54, con un elenco tragico che si aggiorna di settimana in settimana. I tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo registrano nell’ultimo decennio numeri sconvolgenti, perché sono parecchie migliaia, mentre tante, troppe persone muoiono in carcere di malattia e in solitudine.
Quattro nel 2022 i suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita con modalità analoghe a quelle utilizzate dagli stessi detenuti che quella scelta drammatica hanno compiuto. A dimostrazione che il disagio nel carcere colpisce tutti coloro che vivono in esso, compreso chi dentro al carcere lavora quotidianamente.
Sul fronte dei liberi i numeri non sono meno sconvolgenti. In occasione di una rilevazione statistica promossa dal Ministero la scorsa primavera e sui cui esiti il Ministro della Giustizia ha riferito alle camere, è risultato che in Italia sono oltre 90.000 i procedimenti pendenti in materia di richiesta di misura alternativa in attesa di definizione.
Vite sospese: perché quando la pena non è ancora espiata non è possibile avere il passaporto, è molto più difficile trovare lavoro e opportunità risocializzanti e si vive in una condizione di incertezza sul proprio futuro. Molte pene vengono poi espiate a distanza di molti anni; ma espiare una pena a 5 o 10 e più dal giudicato per fatti ancor più vecchi, toglie senso alla pena e porta con sé una ulteriore componente di afflittività, che mal si concilia con il finalismo rieducativo della pena.
V’è poi il tuttora irrisolto capitolo delle R.E.M.S. – Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza – destinate a soggetti autori di fatti-reato riconosciuti incapaci di intendere e volere al momento del fatto per infermità di mente e ritenuti socialmente pericolosi. Sono circa 700 le persone in attesa di fare ingresso in R.E.M.S., persone socialmente pericolose che attendono di essere curate; di queste, con stime del tutto incerte ed approssimative, circa 50 sono tuttora recluse in carcere in attesa di entrare in queste strutture: una situazione di gravissima illegittimità perché non v’è alcun titolo che giustifichi il trattenimento in carcere e, tuttavia, ancora recluse perché socialmente pericolose; vi sono poi coloro i quali, destinatari della misura di sicurezza, sono in stato di libertà in attesa di fare ingresso in R.E.M.S.: soggetti che di regola rifiutano il trattamento terapeutico e che sono socialmente pericolosi, anch’essi posti, spesso senza alcun controllo e monitoraggio, nel limbo di una lista d’attesa che può durare molti mesi, quando non anni […]
A fronte di tutto questo, quali sono le risorse in campo?
Poche centinaia, davvero poche centinaia, sono i magistrati di Sorveglianza; il personale amministrativo dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza conosce scoperture gravissime, dato ancor più drammatico perché questo è un settore nel quale il Personale svolge l’istruttoria e senza di esso i procedimenti non vanno avanti.
I Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non hanno avuto assegnata alcuna risorsa dal P.N.R.R.: come gli uffici minorili, sono stati totalmente esclusi dall’Ufficio per il processo.
La digitalizzazione è all’anno zero: lavoriamo ancora con procedimenti esclusivamente cartacei, non esiste il fascicolo informatico del detenuto e del libero affidato, si fa fatica perfino ad acquisire le informazioni e i documenti che servono per l’istruttoria. Oggi il Ministro ha parlato di assunzioni in corso e di digitalizzazione ormai come una realtà anche degli uffici penali: noi però non abbiamo visto né personale, né digitalizzazione né informatizzazione.
E se qualcosa sul versante dell’innovazione tecnologica si sta facendo, nessuno ce lo ha comunicato.
Sul fronte dei servizi la situazione è non meno drammatica: mancano i direttori delle carceri, al punto che per anni ci sono stati direttori che hanno dovuto gestire in contemporanea anche due e tre carceri. Solo quest’anno prenderanno servizio i direttori neo assunti, ma intanto i vuoti degli anni passati hanno prodotto i loro effetti negativi sull’organizzazione e la gestione degli istituti.
Inadeguati i numeri del personale addetto all’Area educativa del carcere, mentre del tutto insufficiente è il numero dei funzionari UEPE, investiti negli ultimi anni di sempre maggiori compiti: messa alla prova, giustizia riparativa, pene sostitutive, oltre ai tradizionali compiti previsti dall’ordinamento penitenziario per le misure alternative; le assunzioni annunciate non saranno sufficienti, specie a fronte dei pensionamenti degli ultimi anni, a garantire un servizio efficiente.
Note a tutti sono le gravi scoperture del Corpo di Polizia penitenziaria, chiamato a svolgere un compito delicatissimo che espone continuamente a situazioni stressanti e usuranti.
Sempre più scadente è la quantità e la qualità dell’assistenza sanitaria assicurata in carcere; il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni ha segnato un complessivo peggioramento del servizio, con disparità di trattamento dei detenuti e con un’assistenza “a macchia di leopardo”.
In conclusione, c’è un tema di risorse, ma prima ancora di crisi del sistema dell’esecuzione penale, della sua capacità di realizzare i fini propri della pena, ad iniziare dal finalismo rieducativo indicato dall’art. 27 Costituzione. […]
Ci sono molti modi di sferrare un attacco ai diritti: si può fare con le azioni, ma c’è anche un altro modo, surrettizio, ma non meno efficace, che è quello delle omissioni, quello di non fornire a chi, come la magistratura, quei diritti è istituzionalmente chiamata a tutelare, quelle risorse e quegli strumenti indispensabili per assicurare ad essi contenuto ed effettività“.
Parole chiare, lucide e condivisibili, nulla da aggiungere.
In questo quadro di sostanziale abbandono della funzione rieducativa della pena e, ancor prima e peggio, del trattamento minimo cui ha diritto ogni essere umano, tanto più se affidato alla custodia dello Stato, si staglia la specifica condizione del tribunale di sorveglianza di Roma.
Da tempo i legali impegnati nel settore dell’esecuzione penale denunciano una situazione allarmante: le istanze provenienti dai detenuti e dagli avvocati giacciono per mesi prima di venire istruite e spesso se depositate via pec non vengono prese in considerazione e valutate.
Sul punto, e tra le tante, si è espressa di recente Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 49605/2023 che ha annullato l’ordinanza di rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale per omessa valutazione della memoria difensiva depositata via pec.
Ne abbiamo parlato ad inizio estate del 2023 nel post “Tribunale di sorveglianza di Roma: qualcosa non va” , a firma di Riccardo Radi, (consultabile a questo link).
Da allora nulla è successo e la situazione critica non è affatto cambiata.
Siamo ben consapevoli che la magistratura di sorveglianza capitolina risenta dei problemi che affliggono gli analoghi uffici giudiziari di ogni parte d’Italia ed escludiamo che i ritardi o addirittura le omesse risposte ad istanze difensive siano il frutto di un’inerzia deliberata.
D’altro canto, siamo altrettanto consapevoli dell’ingiustizia sostanziale di una situazione in cui un detenuto o il suo difensore che fanno domande non ottengono risposte o le ottengono a distanza di mesi.
È per questo che registriamo e rilanciamo l’iniziativa di un gruppo di penalisti romani, tra questi in primis l’Avvocato Antonio Barbieri che ha suggerito l’idea di inviare via pec al Ministero della Giustizia copia di tutte le istanze depositate dagli avvocati romani al tribunale di sorveglianza della capitale.
Si legge nel breve comunicato redatto per l’occasione: “Sto inviando per conoscenza tutte le istanze depositate al tribunale di sorveglianza Roma e/o al magistrato di sorveglianza di Roma alla pec del gabinetto del Ministro della giustizia, segnalando il dato oggettivo della mancanza di una risposta in tempi ragionevoli.
Valutate se fare lo stesso. Mi pare che tutte le altre iniziative, senza alcun intento polemico nei confronti delle associazioni forensi a vario titolo impegnate sul tema, non abbiano sortito alcun effetto.
Se tutti gli avvocati faranno lo stesso, la questione finirà sul tavolo del ministro”.
La pec a cui inviare per conoscenza le istanze è: gabinetto.ministro@giustiziacert.it.
Terzultima Fermata raccoglie l’invito e rilancia l’iniziativa invitando tutti gli avvocati ad aderire a questa forma di protesta civile per garantire i minimi fondamentali di un sistema giustizia sempre più incapace di rispondere ai bisogni degli utenti.
