Cassazione penale, Sez. 6^, ordinanza n. 4269/2024, udienza dell’11 gennaio 2024, ha avuto ad oggetto un ricorso straordinario con cui si chiedeva di considerare come un errore materiale la dichiarazione di inammissibilità per manifesta infondatezza contenuta in una precedente sentenza della stessa Suprema Corte.
Ricorso per cassazione
Il difensore di DM e FS, munito di procura speciale, ha proposto ricorsi straordinari ex art. 625-bis cod. proc. pen. avverso la sentenza emessa il […] dalla seconda sezione penale della Cassazione, con la quale sono stati dichiarati inammissibili i ricorsi dei predetti ricorrenti, condannati, la prima, per il reato di estorsione ai danni di più persone, e, il secondo, per il reato di estorsione ai danni di […].
I ricorrenti hanno dedotto l’errore in cui sarebbe incorsa la seconda sezione per avere qualificato i motivi dei ricorsi manifestamente infondati, pur avendo corretto la sentenza impugnata, e per la conseguente mancata declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione.
Decisione della Corte di cassazione
L’errore materiale e l’errore di fatto, indicati dall’art. 625-bis c.p.p. come motivi di possibile ricorso straordinario avverso provvedimenti della Corte di cassazione, consistono, rispettivamente, il primo, nella mancata rispondenza tra la volontà, correttamente formatasi, e la sua estrinsecazione grafica; il secondo, in una svista o in un equivoco, incidenti sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto viene percepito in modo difforme da quello effettivo.
Ne deriva che rimangono del tutto estranei all’area del ricorso straordinario gli errori di valutazione e di giudizio dovuti a una non corretta interpretazione degli atti del processo di cassazione, da assimilare agli errori di diritto conseguenti all’inesatta ricostruzione del significato delle norme sostanziali e processuali (cfr., ex multis, Sez. U, n. 16103 del 27/3 4/2002, Basile, Rv. 221280 -01; Sez. 6, ord. n. 28424 del 23/06/2022, Rv. 283667 – 01).
L’errore di fatto deve essere inteso inoltre in senso stretto, nella sua dimensione meramente percettiva, essendo i suoi confini rigidamente segnati dalla circostanza che in esso fa assoluto difetto qualsiasi implicazione valutativa dei fatti sui quali la Corte di cassazione è chiamata a pronunciare.
Gli errori, dedotti dai ricorrenti, afferiscono alla valutazione compiuta dalla seconda sezione e non possono essere sussunti – proprio per il loro contenuto valutativo – nell’ambito dei vizi sindacabili con il ricorso straordinario, come innanzi ricordato.
La proposizione del ricorso per motivi non consentiti ne consente l’immediata declaratoria di inammissibilità senza formalità ai sensi dell’art. 625, comma 4, cod. proc. pen., con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
La precedente decisione della Corte di cassazione oggetto del ricorso straordinario
Si tratta di Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 34775/2023, udienza del 13 luglio 2023.
Si riporta integralmente il passaggio della motivazione sul quale è stato fondato il ricorso straordinario:
“Dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che la Corte d’appello ha escluso l’estinzione dei reati per prescrizione, sul rilievo che: «non può ritenersi l’estinzione per prescrizione del reato, atteso che, seppur vero che, per i primi fatti, in sé considerati, sarebbe decorso il relativo termine prescrizionale, è pur vero che il primo giudice non ha effettuato alcun aumento di pena, ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p., escludendo, quindi, la continuazione interna ed ha, invece, considerato, ai fini sanzionatori, l’azione unitaria e l’ultimo frammento di condotta alla stregua di un’azione prolungata nel tempo (prescrizione ordinaria dicembre 2020, prescrizione prorogata a giugno 2023)». Si tratta di una motivazione che – pur pervenendo alla corretta esclusione del maturarsi della prescrizione prima della sentenza di appello – va necessariamente corretta in diritto dal Collegio sulla base delle seguenti considerazioni. Correttamente è stata ritenuta dal giudice del merito l’unitarietà di ciascuna condotta estorsiva, in quanto riferibile alla iniziale minaccia, supportata da un’identica causale e in danno della medesima dipendente. La continua corresponsione, nei confronti di ciascuna delle dipendenti, di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare sottoscrivendo anche buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate, si deve e si avvale, per la durata dell’intero rapporto di lavoro, dell’iniziale minaccia che ne ha pervaso causalmente e finalisticamente la causa, mutandone scopo e funzione, rendendola asservita, in modo persistente, agli interessi illeciti perseguiti dal datore di lavoro attraverso un collaudato schema societario. In tema di estorsione, le diverse condotte di violenza e minaccia poste in essere per procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonome ipotesi di reato, consumate o tentate, unificabili con il vincolo della continuazione quando, singolarmente considerate, in relazione alle circostanze del caso concreto, alle modalità di realizzazione e all’elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità, dovendosi invece ravvisare – come nei casi in esame – un unico reato allorché i molteplici atti di minaccia costituiscano singoli momenti di un’ unica azione (Sez. 2, n. 37297 del 28/06/2019, C., Rv. 277513 – 01). Di conseguenza, ai fini dell’individuazione della consumazione del reato e del termine necessario a prescrivere, deve aversi riguardo non al momento in cui è stata profferita la minaccia, bensì all’epoca di cessazione delle singole condotte estorsive realizzate ai danni di ciascuna persona offesa, ossia all’atto della cessazione del rapporto di lavoro (31/07/2010; con esclusione di […] facendosi riferimento all’anno 2011). Con la conseguenza che alla data di deliberazione della sentenza impugnata nessuna delle estorsioni era estinta per prescrizione (la sentenza è stata deliberata il 15/12/2021).
La declaratoria di inammissibilità dei ricorsi – non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione – preclude alla Corte di cassazione di rilevare e dichiarare, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., la prescrizione dei reati maturata nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 dell’8/05/2013, Rv. 256463; Sez. U, n. 6903 del 27/5/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966; Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266)“.
Note di commento
Sono adesso chiari i termini della questione.
I ricorsi di DM e FS ai quali ha risposto la decisione del 2023 contestavano entrambi l’omessa presa atto della già maturata prescrizione ad opera della Corte territoriale.
Il collegio della seconda sezione penale ha ritenuto in quel caso di dover correggere un errore di diritto compiuto dai giudici di appello riguardo all’individuazione della consumazione del reato e del termine necessario a prescrivere, escludendo tuttavia che la correzione implicasse l’avvenuta prescrizione.
Ha infine ritenuto inammissibili entrambi i ricorsi per manifesta infondatezza, traendo da tale esito l’impossibilità della formazione di un valido rapporto processuale e la conseguente irrilevanza del tempo trascorso tra la decisione impugnata e quella della Suprema Corte durante il quale si era maturato il termine di prescrizione del reato contestato.
Gli interessati hanno di seguito proposto un ricorso straordinario per errore di fatto, sostenendo che la correzione apportata alla motivazione della sentenza d’appello dalla decisione del 2023 avrebbe impedito il giudizio di manifesta infondatezza e quindi di inammissibilità del ricorso e questo avrebbe reso possibile la formazione del rapporto processuale e la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.
La decisione su questo secondo ricorso, pur dando atto dell’errore compiuto dal collegio della seconda sezione penale, lo ha ritenuto di tipo valutativo e dunque non compreso tra i vizi valutabili nell’ambito del ricorso straordinario.
Questa sequenza legittima una prima domanda: può essere manifestamente infondato un motivo di ricorso per cassazione che, pur non ottenendo il risultato sperato, obblighi la Cassazione a correggere la motivazione della sentenza impugnata?
E poi una seconda: se si convenisse che la particolare situazione appena descritta renderebbe ingiustificato il giudizio di manifesta infondatezza, sarebbe questo un errore materiale (distonia tra la volontà correttamente formata e la sua rappresentazione grafica) oppure valutativo (inesatta ricostruzione del significato di norme sostanziali o processuali)?
E infine una terza: se un errore di qualsivoglia tipo ci fosse comunque stato e avesse prodotto l’effetto di impedire la presa d’atto di una prescrizione già avvenuta e di rendere definitiva una condanna, sarebbe accettabile l’assenza di qualsiasi rimedio ordinamentale e il pesante prezzo così imposto alla vittima dell’errore?
Non sono capace di rispondere a queste domande.
Mi sento tuttavia di dare ragione una volta di più ad Emanuele Fragasso che, nel suo scritto “Diritto al controllo di legittimità e inammissibilità dei ricorsi per manifesta infondatezza dei motivi, dichiarata all’esito dell’udienza pubblica“, in Archivio penale, 2019, fascicolo 2 (consultabile a questo link), esordiva così: “Tra gli avvocati penalisti è diffusa la convinzione che l’esito del ricorso per cassazione dipenda, attualmente, da variabili ignote al momento della sua preparazione e della sua presentazione“.
