Si ha un mutamento giurisprudenziale (overruling nella terminologia anglosassone) sfavorevole allorché, come suggerisce la stessa parola, ad un orientamento interpretativo ne segua un altro che comporta una situazione deteriore per chi si difende in un procedimento penale.
Negli ordinamenti di common law ove vige il principio del precedente vincolante si considera che l’overruling rilevante sia solo quello operato dall’istanza giudiziaria funzionalmente competente all’emissione di principi di diritto in grado appunto di vincolare gli altri giudici.
Nel nostro ordinamento, che appartiene alla famiglia del civil law, l’overruling è normalmente associato alla Sezioni unite della Suprema Corte in quanto organo funzionalmente deputato a risolvere i conflitti giurisprudenziali.
Se ne è già parlato nel post Il diritto penale giurisprudenziale (consultabile a questo link) e ad esso si rimanda per una descrizione riassuntiva generale delle questioni che si agitano nel dibattito in corso presso la Suprema Corte.
Qui ci si limita pertanto ad una ricognizione casistica di decisioni recenti dei giudici di legittimità.
Si può iniziare da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 2045/2024, udienza del 21 dicembre 2023.
Il difensore aveva impugnato in questo caso l’ordinanza con cui la Corte territoriale aveva dichiarato inammissibile l’appello del suo assistito per l’assenza di un’adeguata confutazione della motivazione della decisione censurata, consistendo l’appello stesso in una doglianza generica e assertiva.
Il collegio della Suprema Corte ha accolto il ricorso nei termini che seguono.
“Le considerazioni[della Corte territoriale], astrattamente corrette, applicano nondimeno a un’impugnazione presentata 1’11 gennaio 2012, un principio di diritto – quello secondo il quale l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato – consolidatosi solo in un momento significativamente successivo all’attività processuale espletata dalla parte (ovvero a partire da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 268822).
In tema di successione di leggi penali nel tempo, l’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, non consente l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale più sfavorevole di una norma penale – cosiddetto overruling – solo quando il risultato interpretativo non fosse ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto (Sez. 3, n. 46184 del 23/11/2021, Rv. 282238; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Rv. 273876; Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Rv. 274406).
Nel caso di specie, sussiste la violazione dei principi convenzionali di irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole in relazione al ribaltamento imprevedibile di un quadro giurisprudenziale consolidato, a fronte di un atto di appello che comunque deduceva alla Corte territoriale censure stringate, ma non avulse dallo svolgimento procedimentale e consistenti in una critica non astrusa del percorso giustificativo del primo giudice“.
Il collegio ha coerentemente annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata e restituito gli atti alla Corte territoriale per un nuovo giudizio.
Si prosegue con una pronuncia di poco precedente, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 43346/2023, udienza del 21 settembre 2023.
La questione posta dalla difesa del ricorrente era stata così formulata: “La Corte di appello ha mutuato un precedente giurisprudenziale (Sez. 2, n. 42583 del 24/09/2019, Rv. 277631), secondo cui la concessione della sospensione condizionale della pena può legittimamente essere subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante l’adempimento dell’obbligo di restituzione, anche qualora manchi una richiesta in tal senso per la mancata costituzione di parte civile della persona offesa, in contrasto con altro prevalente – e maggiormente condivisibile – orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice non può subordinare il beneficio all’adempimento dell’obbligo della restituzione di beni conseguiti per effetto del reato qualora non vi sia stata costituzione di parte civile, in quanto la restituzione, come il risarcimento, riguarda il solo danno civile (Sez. 1, n. 26812 del 20/12/2021, dep. 2022, Rv. 283310)“.
Il collegio di legittimità ha accolto il ricorso per ragioni che qui non rilevano.
È interessante invece la risposta specifica che ha dato alla questione così come formulata dal ricorrente: “in tema di overruling giurisprudenziale, non sussiste la violazione del principio di irretroattività ove la possibilità di letture diverse della norma oggetto di interpretazione non discenda da una patologica indeterminatezza del dato normativo, e il risultato interpretativo sia comunque correlabile al significato letterale della disposizione. Come affermato sul punto dalla costante giurisprudenza di legittimità, non sussiste la violazione dell’art. 7 CEDU – così come conformemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU – qualora l’interpretazione della norma incriminatrice applicata al caso concreto sia ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa, atteso che l’irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole presuppone il ribaltamento imprevedibile di un quadro giurisprudenziale consolidato (Sez. 5, n. 47510 del 18/10/2018, Rv. 274406)“.
A conclusioni analoghe è giunta Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 22644/2023, udienza del 27 aprile 2023.
Ricorreva un funzionario della Polizia di Stato al quale era stato contestato il reato previsto dall’art. 615-ter, commi 1, 2 n. 1 e 3 cod. pen. per avere fatto accesso al sistema informatico SDI, consultando sia il proprio profilo che quello di un collega con il quale aveva avuto un litigio che era costato ad entrambi accertamenti disciplinari.
Il suo difensore sosteneva tra l’altro che al momento degli accessi ritenuti abusivi l’imputato era il funzionario più alto in grado nel suo ufficio e non aveva quindi bisogno di alcuna autorizzazione per consultare lo SDI.
Da questa circostanza derivava che al momento dei fatti la condotta tenuta dall’imputato sarebbe stata perfettamente lecita secondo l’interpretazione fornita alla norma incriminatrice dalla sentenza delle Sezioni unite n. 4694 del 07/02/2012, Casani, proprio perché disponeva dell’autorizzazione ad accedere al sistema.
Il collegio decidente non ha condiviso la censura, osservando quanto segue:
“Nel caso di specie non viene in rilievo il principio di irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole, che trova fondamento nell’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
L’art. 7 CEDU, «pur enunciando formalmente il solo principio di irretroattività, è stato interpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina nel senso che esso delinea, nell’ambito del sistema europeo di tutela dei diritti dell’uomo, i due fondamentali principi penalistici nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege» (Cass., Sez. U, n. 18288 del 12/01/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651): e nel concetto di legalità la giurisprudenza della Corte europea ha ricompreso sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale.
Ciò comporta che una decisione del supremo organo di nomofilachia, che fornisca un’interpretazione nuova e sfavorevole (c.d. overruling) di una disposizione penale, possa assumere rilevanza ai fini della violazione dei principi tutelati dall’art. 7 CEDU: deve però trattarsi, appunto, del «ribaltamento imprevedibile di un quadro giurisprudenziale consolidato» (Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Rv. 274406; v. anche Sez. 3, n. 46184 del 23/11/2021, Rv. 282238).
Nel caso di specie l’orientamento che ha trovato l’avallo delle Sezioni unite Savarese (n. 41210 del 18/05/2017, Rv. 271061) era tutt’altro che imprevedibile al momento del fatto.
La sentenza Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251269 (precedente alla commissione del fatto per il quale si procede) aveva stabilito che integra il delitto previsto dall’art. 615-ter cod. pen. la condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema.
Rispetto a tali principi, la sentenza Savarese ha statuito che integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita.
La sentenza Savarese, dunque, non ha fatto altro che precisare, rispetto ad alcune incertezze interpretative (in effetti legate ad un contrasto tra due sole pronunzie di questa sezione), la direzione esegetica di Sezioni unite Casani quanto, in particolare, alla rilevanza o meno della violazione di norme specifiche che disciplinassero l’accesso al sistema.
Più precisamente, con la sentenza Savarese, è stato approfondito e specificato il concetto di “operazioni ontologicamente estranee” a quelle consentite, qualora la condotta criminosa sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, evocando sia l’art. 1 della legge n. 241 del 1990 che gli artt. 54, 97 e 98 della Costituzione. Nel sancire il principio di diritto precedentemente riportato, il supremo organo nomofilattico si è comunque collocato sia nel solco di Sezioni unite Casani, dal quale era già evincibile come fosse sufficiente, per integrare la fattispecie penale, che il soggetto avesse travalicato i limiti propri dell’autorizzazione che gli era stata concessa (il soggetto agente – così Sezioni unite Casani – è penalmente responsabile «sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema […l sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito»); sia sulla scia di un corposo filone giurisprudenziale che aveva preceduto persino le Sezioni unite Casani (cfr. Sez. 5, n. 12732 del 07/11/2000, Rv. 217743; Sez. 2, n. 30663 del 04/05/2006, n.m.; Sez. 5, n. 37322 del 08/07/2008; Sez. 5, n. 18006 del 13/02/2009, Rv. 243602; Sez. 5, n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Rv. 245842; Sez. 5, n. 19463 del 16/02/2010, Rv. 247144; Sez. 5, n. 39620 del 22/09/2010, Rv. 248653)“.
Si chiude con Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 20348/2021, udienza del 9 marzo 2021 che ha deciso ricorsi che seguivano a condanne per ipotesi di peculato in relazione all’utilizzo asseritamente illecito dei contributi per il funzionamento dei gruppi consiliari insediati nelle Regioni.
Tra le varie censure proposte dinanzi la Suprema Corte erano comprese talune attinenti all’oggetto di questo post.
Ecco la risposta del collegio decidente:
“Deve essere innanzitutto trattata la questione con cui le difese di A. e C. hanno eccepito la violazione di legge in relazione all’art. 7 della Convenzione Europea per i diritti dell’uomo con riferimento all’art. 314 cod. pen., per avere la Corte d’appello pronunciato condanna sulla base di un orientamento giurisprudenziale affermatosi successivamente alla commissione dei reati sub iudice – dunque retroattivamente – senza fare applicazione del principio del prospective overruling.
In particolare, i ricorrenti sostengono che le condotte da essi poste in essere – in applicazione del principio di diritto affermato nella sentenza Tretter di questa Corte (cioè della sentenza Sez. 6, n. 33069 del 12/05/2003, Rv. 226531-01) prevalente all’epoca dei fatti – non costituirebbero peculato, essendo stati i contributi loro erogati quali consiglieri regionali impiegati per “spese di rappresentanza” relative alle attività del Gruppo Misto, e che il giudizio di penale responsabilità espresso a loro carico poggerebbe su di un orientamento giurisprudenziale diverso (secondo cui costituisce condizione necessaria per la liceità della spesa l’indicazione “puntuale e coeva” della sua destinazione nell’ambito delle finalità strettamente connesse alle specifiche competenze ed attribuzioni istituzionali dei soggetti che ne possono disporre), affermatosi successivamente al tempus commissi delicti a partire dalla sentenza Provenzano (Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061-01), erroneamente applicato dai Giudici della cognizione in senso retroattivo.
Deve essere, innanzitutto, rilevato che il principio del perspective overruling – elaborato nel sistema processuale nordamericano per delimitare gli effetti dei mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli ai casi futuri a garanzia dell’affidamento incolpevole del cittadino – ha trovato riconoscimento nell’ambito del nostro ordinamento (almeno sino a questo momento) soltanto in ambito civile ed amministrativo e con esclusivo riguardo ai revirement giurisprudenziali nell’ambito del diritto processuale e non del diritto sostanziale.
In particolare, le Sezioni unite civili di questa Corte hanno affermato che, per configurare il prospective overruling, è necessaria la concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: 1) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; 2) l’interpretazione deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un ragionevole affidamento; 3) l’innovazione deve comportare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa (Sez. U. civ, 13/09/2017, n. 21194; Sez. U civ., 11/07/2011 n. 15144).
Tale impostazione è stata recepita anche dal Consiglio di Stato nella più ampia composizione (Cons. Stato, Ad. plen., 02/11/2015, n. 9; conf. Cons. Stato, Sez. 3, ord. 07/11/2017, n. 5138).
Alla stregua di quanto appena rilevato, il principio invocato dalle difese non potrebbe trovare applicazione – neanche in linea teorica – nell’odierno procedimento, non tanto e non solo perché non ha (ancora) trovato spazio nell’ambito del processo penale (sebbene da più parti in dottrina se ne reclami l’estensione, ravvisandosi anche nel processo penale l’eadem ratio che ne ha giustificato il riconoscimento nel processo civile ed amministrativo), quanto perché l’affidamento nell’interpretazione giurisprudenziale è suscettibile di assumere rilevanza giuridica solo qualora abbia ad oggetto una regola processuale rispetto alla quale risulta intollerabile – in ossequio al principio del giusto processo sancito nell’art. 111 Cost. – la modifica delle regole processuali consolidate e dunque predeterminate, vietando di “cambiare le regole del gioco a partita già iniziata” (così nella sentenza Sez. 2 civ., 17/06/ 2010, n.14627).
L’applicazione retroattiva di una linea giurisprudenziale indicata come innovativa denunciata dai ricorrenti ha, invece, ad oggetto un principio concernente il diritto penale sostanziale o meglio investe il piano probatorio (id est i presupposti per ritenere integrata la fattispecie incriminatrice del peculato), di tal che si è all’evidenza all’esterno del perimetro di operatività dell’invocato principio.
Va invero posto in risalto come la giurisprudenza di questa Corte non ha mai posto in discussione il principio di diritto – affermato nella sentenza Tretter – secondo cui integra il delitto di peculato la destinazione dei contributi erogati ai Gruppi regionali per finalità non legate da un nesso funzionale con il funzionamento e le esigenze del Gruppo consiliare. In particolare, con la sentenza Tretter, questa Corte si è soffermata sulla definizione del concetto di “spese di rappresentanza” (affermando che esse possono includere l’acquisto di materiale propagandistico e di oggetto-regalo di modesto valore per gli elettori, così come il pagamento di pranzi e rinfreschi in occasione di incontri pre-elettorali), ponendo comunque in luce la necessità che l’impiego delle risorse concerna spese “legate da nesso funzionale con la vita e le esigenze del Gruppo”, concetto ribadito in termini sostanzialmente conformi anche dalla successiva giurisprudenza.
La rilevata difformità interpretativa riguarda piuttosto l’aspetto della prova della distrazione dei fondi dalla destinazione pubblicistica. Difformità che risulta più apparente che reale, là dove la dimostrazione della distrazione/appropriazione dei contributi erogati ai componenti del Gruppi del Consiglio regionale non può che essere diversamente modulata a seconda della normativa regionale di riferimento, in particolare, se implicante o meno l’obbligo di rendiconto e/o l’obbligo di conservazione delle pezze giustificative.
In particolare, la giurisprudenza di legittimità sul punto ha mosso dal riconoscimento di un obbligo in capo al consigliere di dare puntuale e coeva giustificazione dell’impiego delle risorse (affermato nella sentenza Provenzano Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061-01) ed è poi passata all’affermazione di principio secondo la quale è invece necessaria la prova piena, da fornire a cura della pubblica accusa, dell’appropriazione e dell’offensività della condotta (di cui alla sentenza Sez. 6, n. 35683 del 01/06/2017, Adamo, Rv. 270549-01), in una situazione nella quale, peraltro, la disciplina delle erogazioni ai Gruppi del Consiglio regionale della Sicilia non contemplava un obbligo di rendicontazione. Nella stessa sentenza Adamo, questa Corte ha riconosciuto come la prova della distrazione/appropriazione possa essere evinta anche da “situazioni altamente significative” della destinazione dei fondi ad una finalità avulsa da quella istituzionale e, quindi, anche dalla mancanza di adeguate giustificazioni in presenza di un obbligo di rendiconto. Tale impostazione ermeneutica si è ormai consolidata nell’affermazione di principio secondo cui la prova della distrazione/appropriazione può essere desunta anche da elementi indiziari della divaricazione dei contributi dalla destinazione propria (Sez. 6, n. 11001 del 15/11/2019, dep. 2020, Valenti, Rv. 278809-02; Sez. 6, n. 16765 del 18/11/2019 – dep. 2020, Giovine, Rv. 27941808).
Non può d’altronde sfuggire che le “situazioni altamente significative” altro non sono che indizi gravi, precisi e concordanti della condotta costituente reato (cioè della distrazione/appropriazione) e che, pertanto, fermo restando l’onere della prova a carico del Pubblico Ministero, legittimamente il giudice può fondare il proprio convincimento circa la destinazione dei fondi erogati ai Gruppi consiliari verso la realizzazione di finalità non istituzionali in ossequio alla regula iuris fissata nell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, non v’è materia per ritenere che i Giudici della cognizione, nel pervenire al giudizio di penale responsabilità nei confronti di A. e C., abbiano fatto richiamo ad un principio di diritto più severo affermatosi nel c.d. diritto vivente successivamente alla commissione dei fatti e, dunque, secondo un’applicazione retroattiva in malam partem.
Come si è già notato, il rilevato mutamento giurisprudenziale investe, non l’aspetto strutturale dell’incriminazione (essendo rimasto inalterato il principio di diritto secondo cui integra il peculato l’impiego dei fondi erogati al consigliere regionale per una finalità diversa da quella istituzionale, id est il funzionamento e l’attività del Gruppo consiliare), ma soltanto il piano probatorio, incidendo cioè sul criterio di valutazione degli elementi e delle circostanze di fatto da parte del giudice al fine di ritenere perfezionato il delitto, secondo una lettura interpretativa comunque coerente ai principi generali in tema di prova fissati nel codice di rito“.
Note di commento
Dal ristretto campione di decisioni preso in considerazione si possono ricavare alcune indicazioni utili per i pratici, sintetizzate come segue:
- l’overruling sfavorevole non ha effetto retroattivo solo a due condizioni: deve incidere su norme processuali poiché “non si cambiano le regole del gioco a partita iniziata”; deve essere imprevedibile, cioè il frutto di un orientamento interpretativo che non era ragionevolmente prevedibile al momento della condotta incriminata;
- sono per ciò stesso sempre retroattivi gli overruling sfavorevoli che: riguardino norme di diritto sostanziale; siano prevedibili al momento della condotta.
Cosa si debba intendere per ragionevole prevedibilità (espressione che, peraltro, per la sua vaghezza, sembrerebbe includere anche filoni interpretativi neanche immaginati al momento della condotta) nessuna delle decisioni selezionate lo spiega e neanche potrebbe farlo.
Lo stesso vale per l’equazione regole del gioco = norme processuali, peraltro smentita a livello sovranazionale dalla notissima e mai digerita decisione Contrada c. Italia della Corte EDU del 2015 che constatò la violazione italiana dell’art. 7 CEDU poiché al tempo in cui Contrada tenne le condotte che gli constarono la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa la giurisprudenza interna non si era ancora stabilizzata su quella fattispecie. Senza poi tralasciare l’affermazione di segno contrario fatta da Giorgio Fidelbo, presidente della sesta sezione penale della Suprema Corte, nel suo scritto richiamato nel post Il diritto penale giurisprudenziale citato in apertura: “A differenza di quella civile che riconosce rilievo al mutamento giurisprudenziale esclusivamente in materia processuale, la Corte di cassazione penale sembra prenderlo in considerazione anche nella materia del diritto penale sostanziale, negando efficacia retroattiva all’overruling sfavorevole quando introduca una soluzione interpretativa non congruente con l’essenza del reato, tanto da porsi come sviluppo ermeneutico non conoscibile e prefigurabile rispetto alla interpretazione precedente. Tuttavia, anche in questi casi si tratta di declamazioni di principio che non hanno ricevuto mai una pratica applicazione“
Questo è lo stato dell’arte al momento e, a parere di chi scrive, è ben lontano da un assetto soddisfacente.
