La Metamorfosi di Kafka e gli incubi delle carceri italiane (di Vincenzo Giglio)

Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.

“Che mi è accaduto?” pensò. Non era un sogno.“.

Inizia così La Metamorfosi di Kafka.

Mi è venuto in mente leggendo sull’edizione digitale di ieri del quotidiano L’Unità un editoriale (titolato Il carcere buono non può esistere ma serve un limite all’illegalità, consultabile a questo link) del Professore Tullio Padovani, già ordinario di diritto penale presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e attuale presidente onorario dell’associazione Nessuno tocchi Caino.

Efficacissimo l’attacco: “Devo essere sincero e lo dico con amarezza: in questo momento non abbiamo ragioni di ottimismo. Vediamo continuamente peggiorare una situazione che è già tragica; ci si chiede come possa peggiorare, ma noi rappresentiamo l’esempio concreto e vivente di come si riesca mai a raggiungere il fondo, perché il fondo sta sempre un passo più in giù“.

Impressionanti gli argomenti centrali:

Il sovraffollamento, che non è mai venuto veramente meno – a volte si è attenuato, ma cessato davvero mai – si prospetta ora in crescita rapida e vistosa, che rende ancora più inumana e ancora più degradante una esecuzione penale che è già, per conto suo, largamente fuori dalla legge, con connotati di intrinseca criminosità. Il numero dei suicidi (dei suicidi noti, perché degli ignoti non possiamo dire, ma è indubbio che ce ne siano) è già di per sé impressionante e attesta, con un tetro sigillo, che il nostro è un ordinamento che ha sì abolito la pena di morte, ma solo per sostituirla con la morte per pena“.

L’altra faccia dei suicidi sono gli psicofarmaci, che costituiscono il modo attraverso il quale ci si industria di evitare i primi, quando ci si riesce. I dati sono più che allarmanti: sono drammatici. Si consuma in carcere un quantitativo di psicofarmaci che è cinque volte quello che si consuma nella media nazionale e la frazione riservata alle sostanze che si utilizzano per le sindromi più gravi, gli antipsicotici, rappresenta il 60%. Coloro che versano in carcere in una situazione clinica da trattamento psichiatrico sono certo in numero elevato, e molto elevato, ma non tanto elevato quanto la platea di coloro che di fatto ricevono un trattamento farmacologico. Questo rappresenta semplicemente un comodo strumento per mantenere l’ordine e la disciplina attraverso stordimento ed abulia“.

Appropriate le tre caratteristiche strutturali che Padovani associa al carcere:

Il carcere è un’istituzione totale. Il carcere è un’istituzione marginale. Il carcere è un’istituzione simbolica. Il carcere è tutte queste tre cose insieme contestualmente. Toglietene una, non sarà più carcere.
È un’istituzione totale perché è un universo disciplinare finalizzato alla propria esclusiva esistenza: esiste per conservarsi; ha questo unico vero scopo reale. Sono tanto immanenti, ordine e disciplina, alla struttura carceraria, che qualsiasi mezzo per ottenerli è buono: per l’appunto, anche gli psicofarmaci, l’ultimo strumento disciplinare che è anche il più comodo, perché il più silente, il meno visibile, il meno vistoso. Attraverso il controllo coercitivo minuto dei tempi, degli spazi, degli spostamenti, delle condotte, di ogni manifestazione della vita corrente si esplica una tecnica volta a rendere docili i corpi e uniformate le menti. Massimo di disciplina che raggiunge il massimo dell’ordine. Questa l’essenza, questa la natura, questa l’operatività […]

Ma è poi anche un’istituzione marginale, nel senso che la condizione dei detenuti e degli stessi detenenti deve rappresentare ciò che di peggio una società può offrire in un contesto dato. Se non è marginale, non è un carcere, e si trasforma in un’istituzione di assistenza, che non potrà risultare totale e, come vedremo, nemmeno simbolica. Deve essere il peggio di una società […]”.

Ma il carcere non è solo un’istituzione totale, non è solo un’istituzione marginale, è anche un’istituzione simbolica, altamente simbolica, perché ciò che gli dà significato nella società non è ciò che esso è. Il carcere è un universo disciplinare, ma non è questo che gli consente di esprimere un significato. Il significante, ciò che il carcere significa, non corrisponde al significato, perché, appunto esso assume una funzione simbolica, rappresenta un’altra cosa. Rappresenta la separazione del bene dal male, quindi, la sicurezza dei buoni e il castigo dei malvagi. Ma guarda che bella cosa! Che meraviglia! Viviamo in una società dove il bene viene separato dal male, dove i buoni sono al sicuro, la notte dormono tranquilli perché i cattivi stanno tutti chiusi nelle loro celle, dove – naturalmente – si farà di tutto per renderli «buoni», utili alla società: rieducati. Così si pensa del carcere fin da quando è stato istituito 250 anni fa. Ha questa funzione edificante, rassicurante, che costituisce dal punto di vista pratico quello che i toscani definiscono simpaticamente una novella da raccontare a veglia. Da svegli, ci raccontiamo le novelle, e così ci addormentiamo, serenamente. Gli incubi ci attendono se mai al risveglio. Ma gli incubi del carcere non turbano quasi nessuno. Il sonno della ragione indotto dalla sua esistenza non conosce se non episodici e saltuari risvegli“.

Ecco che in queste ultime parole di Padovani riecheggia l’incipit kafkiano: addormentarsi umani e svegliarsi mostri, che si sia carcerati o carcerieri.

Credito fotografico: l’immagine che accompagna il post è la copertina di La metamorfosi e altri racconti, di Franz Kafka, editore Rusconi Libri, collana Grande biblioteca Rusconi, 2022.