La cassazione sezione 2 con la sentenza numero 3092/2024 ha stabilito che in tema di rito abbreviato e limiti all’appello del PM, il divieto posto dall’art. 443 comma 3 c.p.p., secondo cui “il pubblico ministero non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato”, non si applica nel caso di sentenza che ha riqualificato il reato da tentato a consumato.
Nel ricorso le difese contestano l’ammissibilità dell’appello del Pubblico ministero, ritenuta ammissibile dalla Corte territoriale, sulla base del disposto dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. che preclude al pubblico ministero di “proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato”.
Secondo i ricorrenti, nel caso di specie l’appello del Pubblico ministero non sarebbe stato consentito in quanto – diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata – la riqualificazione del reato da estorsione tentata a estorsione consumata, operata dal primo giudice, non ha integrato una modifica del titolo di reato.
La Suprema Corte ritiene che la tesi difensiva non sia condivisibile.
Pur in assenza di pronunce specifiche sulla questione, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sull’autonomia delle due figure del delitto tentato è del delitto consumato consenta di aderire convintamente all’opposta tesi seguita dal giudice di appello: il primo, infatti, sebbene conservi lo stesso nomen iuris della figura delittuosa consumata, costituisce una ipotesi autonoma di reato, qualificato da una propria oggettività giuridica e da una propria struttura, delineate dalla combinazione della norma incriminatrice specifica e della disposizione contenuta nell’art. 56 cod. pen., che rende punibili, con una pena autonoma, fatti altrimenti non sanzionabili.
Tale autonomia, ad esempio, è stata evidenziata anche nella pronuncia con la quale le Sezioni unite hanno statuito che «il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dell’art. 12-sexies decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991», aderendo all’orientamento secondo il quale «il generico riferimento ai delitti, aggravati ex art. 7 (agevolazione o metodo mafioso), indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è chiaramente comprensivo di ogni delitto in tal guisa aggravato, consumato o tentato che sia», in quanto «anche quelli rimasti allo stadio del tentativo sono da considerarsi “delitti” cui può accedere la predetta aggravante, a differenza di quanto si verifica nel caso dei delitti individuati con l’espressa indicazione delle norme incriminatrici» (Sez. U, n. 40985 del 19/04/2018, Di Maro, Rv. 273752).
Richiamando detta pronuncia e il principio dell’autonomia del delitto tentato, la cassazione ha affermato, in tema di applicazione di misure cautelari personali, che la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere per determinate fattispecie incriminatrici, prevista dagli artt. 275, comma 3, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi riferita anche ai delitti tentati in caso di contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 12 luglio 1991, n. 203 (ora art. 416-bis.1, primo comma, cod. pen.), atteso che il generico riferimento ai «delitti» in tal guisa aggravati, indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è comprensivo di ogni fattispecie delittuosa, sia consumata che tentata (Sez. 2, n. 23935 del 04/05/2022, Rv. 283176; Sez. 1, n. 38603 del 23/06/2021, Rv. 282049; Sez. 2, n. 22096 del 03/07/2020, Rv. 279771).
In ragione del medesimo principio, secondo la costante giurisprudenza tra i reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. per i quali non opera, ai sensi dell’art. 649, comma terzo, prima parte, cod. pen., la causa di non punibilità prevista da detta disposizione, non rientrano le ipotesi dei delitti tentati (Sez. 2, n. 25242 del 18/04/2019, Rv. 275825; Sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 2014, Rv. 258198; Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, Rv. 252832).
Lo stesso principio è stato richiamato, anche di recente, in tema di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 17348 del 09/01/2019, Rv, 276629) e della circostanza aggravante prevista dall’art. 71 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 2, n. 1009 del 26/11/2021, dep. 2022, Rv. 282583)
Sotto altro profilo va evidenziato, secondo la cassazione, che la inappellabilità, da parte del Pubblico ministero, della sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, prevista dal comma 3 dell’art. 443 cod. proc. pen., costituisce una eccezione alla regola generale prevista dall’art. 593 cod. proc. pen. e fatta rivivere nella seconda parte del medesimo comma.
Pertanto, la limitazione di appellabilità alle sole ipotesi di mutamento del titolo del reato deve essere interpretata in senso restrittivo.
Detta espressione («titolo del reato») può avere significati diversi nell’ordinamento penale e processuale, cosicché essa, nella norma di rito, ha una accezione più ampia di quella letterale accolta dall’art. 117 cod. pen.: sulla base di questo condivisibile rilievo si è affermato che è ammissibile l’appello proposto avverso la sentenza di condanna che, a fronte della contestazione di due ipotesi di reato, ritenga l’assorbimento della fattispecie meno grave anziché il concorso formale tra due i reati (Sez. 6, n. 1651 del 12/11/2019, dep. 2020, Rv. 278215) o che riqualifichi il fatto da omicidio preterintenzionale a eccesso colposo in legittima difesa (Sez. 5, n. 15713 del 02/02/2018, Rv. 272840).
