Soppressione del dispositivo emesso dal giudice tributario in camera di consiglio e successiva redazione di una sentenza di contenuto differente: i reati configurabili (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 47542/2023, udienza del 27 ottobre 2023, ha avuto ad oggetto una vicenda in cui erano contestate le ipotesi di soppressione di atto e falso ideologico in relazione ad un dispositivo emesso in esito alla camera di consiglio di una commissione tributaria che si assumeva soppresso e poi sostituto da una sentenza di contenuto differente.

Riassunzione della vicenda giudiziaria

Nella vicenda giudiziaria sottostante al ricorso per cassazione viene in rilievo per ciò che qui interessa la condanna, disposta dal primo giudice e confermata in appello, del ricorrente OQ per i delitti di falso ideologico e di soppressione di atto pubblico per avere, in concorso con il presidente di una commissione tributaria, nel contenzioso che contrapponeva JG all’Agenzia delle Entrate, soppresso il dispositivo, emesso in data xxx in esito alla camera di consiglio, riportante decisione favorevole all’Agenzia delle Entrate – che veniva sostituito con altro, riportante una decisione emessa nella stessa data ma di contenuto sfavorevole all’Agenzia delle Entrate – e formava una sentenza (n. xxx) di contenuto non corrispondente al deliberato della camera di consiglio, materialmente redatta dal suddetto presidente e da lui sottoscritta in qualità di estensore.

Motivi di ricorso

Tra le varie censure, la difesa del citato ricorrente ha incluso l’insussistenza dei presupposti richiesti per l’integrazione dei delitti di soppressione di atto pubblico fidefacente e di falso ideologico in atto pubblico fidefacente.

Decisione della Corte di cassazione

Il collegio di legittimità le ha ritenute infondate per le ragioni di seguito esposte.

…Contestazione di falso ideologico

I giudici di merito di entrambi i gradi hanno ritenuto provate le condotte contestate ad OQ: ossia, quelle di avere, da giudice della Commissione tributaria di xxx nel contenzioso JG contro Agenzia delle Entrate, una volta modificata, in concorso con il presidente xxx, la decisione, assunta in camera di consiglio in data xxx, sfavorevole al contribuente ricorrente, soppresso il dispositivo emesso a seguito della stessa, sostituendolo con altro, e di avere, nella stessa qualità, sottoscritto nella veste di estensore la relativa sentenza, ancorché redatta materialmente dal medesimo presidente.

In particolare, in riferimento alla questione della loro sussunzione nelle fattispecie astratte di cui agli artt. 476, 479, 490 e 476, comma 2, cod. pen., la Corte territoriale, richiamate le norme di cui: – all’art. 35 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), che stabilisce che «1. Il collegio giudicante, subito dopo la discussione in pubblica udienza o, se questa non vi è stata, subito dopo l’esposizione del relatore, delibera la decisione in segreto nella camera di consiglio» e che ««3. Alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui agli articoli 276 e seguenti del codice di procedura civile»; – all’art. 36 dello stesso decreto, che stabilisce che «2. La sentenza deve contenere: 1) l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori se vi sono», nonché «… la data della deliberazione» e deve essere «sottoscritta dal presidente e dall’estensore»; – all’art. 37 del medesimo testo normativo, che stabilisce che «La sentenza è resa pubblica, nel testo integrale originale, mediante deposito nella segreteria della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado entro trenta giorni dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l’avvenuto deposito apponendo sulla sentenza la propria firma e la data»; – agli artt. 118 e 119 disp. att. cod. proc. civ. (applicabili al processo tributario in forza della disposizione di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 « I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile»), che stabiliscono che « La scelta dell’estensore della sentenza prevista nell’articolo 276, ultimo comma, del codice è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione» e che «L’estensore deve consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente del tribunale o della sezione. Il presidente, datane lettura, quando lo ritiene opportuno, al collegio, la sottoscrive insieme con l’estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale a norma dell’articolo 132 del codice»; ha evidenziato come, in forza del principio della collegialità perfetta, per il quale la decisione di un organo giudiziario plurale è atto unitario, cui pariteticamente concorrono tutti i membri del consesso, la sentenza, depositata e resa pubblica in data 16 dicembre 2008 nel contenzioso JG/Agenzia delle Entrate, doveva ritenersi ideologicamente falsa perché in essa si attestava: I.) che alla decisione avevano partecipato tutti i membri del collegio, indicati nell’intestazione; II) che estensore ne era stato il giudice OQ – già relatore del ricorso in camera di consiglio -; III) che la decisione era stata assunta all’esito della camera di consiglio tenutasi il xxx, quando, invece, la stessa era stata redatta dal presidente del collegio, xxx, che aveva sovvertito la decisione adottata in camera, rendendola da sfavorevole a favorevole al contribuente ricorrente, senza riconvocare il collegio e che si era poi accordato con OQ affinché questi la sottoscrivesse da estensore e vi apponesse, quale data della decisione, quella in cui si era tenuta la camera di consiglio. Ha, pure, sottolineato che, quand’anche il dispositivo, redatto in camera di consiglio ex art. 276, ultimo comma, cod. proc. civ., non abbia rilevanza giuridica esterna, ciò non toglie che si tratti, comunque, di atto pubblico dotato di rilevanza giuridica e di fede privilegiata, in esso attestando il presidente di un collegio giudicante che la deliberazione ha effettivamente avuto luogo all’esito di una camera di consiglio espressasi nella decisione in esso trasfusa: da qui l’integrazione del delitto di soppressione di atto vero. A sostegno il giudice di appello ha evocato gli arresti della giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui la querela di falso, avendo lo scopo di privare il documento dell’efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge, può investire anche una sentenza, purché attenga a ciò di cui la stessa fa fede quale atto pubblico, ossia alla provenienza del documento dall’organo che l’ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) ed a ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza, e quelli della giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, la nozione di atto pubblico comprende non solo gli atti destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti c.d. interni.

Tanto riportato della decisione impugnata, deve riconoscersi che le argomentazioni sviluppate a sostegno della conferma della condanna pronunciata nei confronti di OQ per i delitti ascrittigli al capo 37) della rubrica non contengono alcun errore di diritto.

Infatti, le stesse si sono conformate alla giurisprudenza civile di legittimità, che ha pacificamente affermato che una sentenza fa fede fino a querela di falso con riferimento alla provenienza del documento dall’organo che l’ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) ed a ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza (Sez. 2-civ., n. 24007 del 12/10/2017, Rv. 645587; Sez. 3-civ., n. 2637 del 05/02/2013, Rv. 625411; Sez. 2-civ., n. 10282 del 29/04/2010, Rv. 612612); principio, questo, certamente applicabile alle sentenze emesse nell’ambito del giudizio tributario in virtù di quanto stabilito dall’art. 35, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui «3. Alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui agli articoli 276 e seguenti del codice di procedura civile» (oltre che in forza della disposizione di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, che stabilisce che «I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile»). Al riguardo è stato spiegato che «La querela di falso ha lo scopo di privare un documento dell’efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge (art. 2700, 2702 ss. cod. civ.). In quanto tale, essa ben può investire anche una sentenza, purché attenga a ciò di cui la sentenza stessa fa fede quale atto pubblico, cioè alla provenienza del documento dall’organo che l’ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento – data, sottoscrizione, composizione del Collegio giudicante, ecc. – e di ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza (cfr. per tutte Cass. civ. 25 maggio 2006 n. 12386). La sentenza non certifica invece fino a querela di falso la correttezza intrinseca della decisione assunta, quanto agli accertamenti in fatto, alla valutazione delle prove, all’interpretazione degli atti di parte ed in genere a tutto ciò che è frutto di un giudizio e che, in quanto tale, è soggetto ai mezzi di impugnazione espressamente previsti dalla legge» (Sez. 3-civ., n. 2637 del 05/02/2013, in motivazione, pagg. 7 e 8). Ne viene che, incontestata «la ricostruzione “storica” dei fatti)», in quanto non posta in discussione neppure con i motivi di appello, in disparte un generico riferimento, in seno al presente motivo di ricorso, al difetto di prova in ordine all’ignoranza da parte del terzo membro del collegio giudicante del sovvertimento della decisione adottata in esito alla camera di consiglio, la qualificazione giuridica dei fatti medesimi è ineccepibile; donde, è anche possibile affermare il seguente principio di diritto: «In tema di falsità documentale, integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico fidefacente l’attestazione non corrispondente al vero, contenuta in una sentenza, circa la data della decisione, la sua provenienza dall’organo decidente in una determinata composizione e in ordine a tutto ciò che il giudicante indica come avvenuto in sua presenza».

…Soppressione del dispositivo emesso in esito alla camera di consiglio

Parimenti manifestamente infondata è la deduzione con la quale si nega l’integrazione del delitto di cui all’art. 490 cod. pen., in relazione all’art. 476, comma 2, cod. pen., con riferimento alla soppressione del dispositivo emesso nel contenzioso JG c/Agenzia delle Entrate in esito alla camera di consiglio del 2 dicembre 2008, sul rilievo che il detto dispositivo non è atto dotato di rilevanza esterna. Risponde al vero che la giurisprudenza civile di legittimità ha fin qui insegnato che <<il dispositivo redatto in camera di consiglio ex art. 276, ultimo comma, cod. proc. civ., non ha rilevanza giuridica esterna ma solo valore interno, poiché l’esistenza della sentenza civile è determinata – salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro ovvero a riti ad esso legislativamente equiparati o specialmente disciplinati – dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata, sicché è valida la sentenza ancorché agli atti non risulti la presenza di un dispositivo, sottoscritto dal presidente, mancando, tanto più, la previsione di un corrispondente vizio nella citata norma» (ex multis, Sez. 3 – Civ. , n. 4430 del 11/02/2022, Rv. 663925; Sez. 1 – Civ., n. 33323 del 21/12/2018; Sez. 1-Civ., n. 22113 del 29/10/2015; Sez. 3-Civ., n. 394 del 07/02/1959), tuttavia l’enunciazione di tale principio non esclude la natura di atto pubblico del dispositivo redatto ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, cod. proc. civ.. Invero, premesso che il concetto di atto pubblico è, agli effetti della tutela penale, più ampio di quello desumibile dall’art. 2699 cod. civ., di modo che rientrano in detta nozione pure gli atti, formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato nell’esercizio delle loro funzioni, aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione e, quindi, anche gli atti preparatori di una fattispecie documentale complessa, a prescindere che il loro contenuto venga integralmente trasfuso nell’atto finale del pubblico ufficiale o ne venga a costituire solo il presupposto implicito necessario (Sez. 5, n. 37880 del 08/09/2021, Rv. 282028; Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275415), deve darsi atto di come sia consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza penale di legittimità quello secondo il quale << costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso “iter” – conforme o meno allo schema tipico – ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi» (così Sez. 5, n. 11914 del 15/11/2019, dep. 2020, in motivazione, che richiama Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Rv. 27709201; Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, Rv. 258952; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, Rv. 254388; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Rv. 249858; Sez. 5, n. 7636 del 12/12/2006, Rv. 236515). Alla stregua di tali indicazioni direttive non è, allora, possibile dubitare del fatto che il dispositivo emesso ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, cod. proc. civ, sia atto pubblico fidefacente, in quanto destinato a provare, fino a querela di falso, che la decisione in esso riportata corrisponda a quella adottata in esito alla discussione in camera di consiglio, svoltasi in una certa data tra i componenti di un determinato collegio giudicante: e ciò senza che rilevi la mancanza di attitudine attestativa o probatoria esterna, assumendo, piuttosto, significato decisivo unicamente il dato del suo essere un segmento di una sequenza procedimentale che trova il suo sbocco nella pubblicazione della decisione mediante il deposito del provvedimento del giudice civile. Può, dunque, affermarsi che è atto pubblico fidefacente, sia pure a rilevanza interna, il dispositivo di un provvedimento del giudice civile redatto in camera di consiglio ex art. 276, ultimo comma, cod. proc. civ.