La riforma della prescrizione e l’allarmismo dell’ANM: un tuffo nel passato per valutarne la fondatezza (di Vincenzo Giglio)

È passata alla Camera con un’ampia maggioranza la proposta di riforma della prescrizione (a questo link per il reportage de Il Post sulle linee portanti della riforma e sull’andamento della votazione).

Da più parti si sono levate critiche di vario ordine e grado ma qui ci si concentrerà su quelle provenienti dall’ambito magistratuale e particolarmente dall’Associazione nazione magistrati (ANM) la quale, come orgogliosamente rivendicato nell’homepage del suo sito web, rappresenta il 96% dei magistrati italiani.

A settembre dello scorso anno Giuseppe Santalucia, presidente dell’ANM, intervistato da Liana Milella per il quotidiano La Repubblica, dichiarò che la revisione della prescrizione sarebbe servita “Solo ad accrescere lo stato di inefficienza dei processi. La politica sembra non comprendere che la continua modifica della legge penale a distanza di poco tempo dalla riforma precedente è solo un fattore di rallentamento dell’attività giudiziaria e crea disorganizzazione, incertezze interpretative, difformità applicative” (a questo link per la lettura dell’intervista).

Di seguito, avanzando l’iter parlamentare e diventando progressivamente più evidente la possibilità che la riforma arrivasse in porto, l’ANM ha chiesto che fosse almeno inserita una norma transitoria che escludesse i processi in corso dalla sua applicazione così da evitare una situazione di caos normativo in grado di ingolfare il sistema e provocare ritardi (la notizia è contenuta nell’articolo de Il Post citato in apertura).

È chiaro allora che per il sindacato magistrati la nuova disciplina della prescrizione è un pasticcio da cui ci si può aspettare solo danni e disorganizzazione: un allarme dopo l’altro.

Non è la prima volta che succede.

Proviamo a capirne di più ma con il limite autoimposto di non tornare troppo indietro nel tempo e non indulgere nella casistica perché altrimenti ci vorrebbe quasi una monografia.

Ricorrerò pertanto ad un unico ma assai significativo esempio che richiede di tornare indietro fino al 2015.

In quell’anno fu varata la Legge n. 18/2015 che modificava la precedente Legge n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.

Il senso della riforma fu chiaramente esplicitato nell’art. 1 della Legge laddove si affermava la volontà di «rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea».

È legittimo ritenere che il riferimento all’effettività fosse dovuto in larga parte a rilevazioni di tipo statistico, se si considera che al 2014 risultavano esperite circa 400 domande ex Legge 117 e solo 7 di esse erano state accolte.

L’ulteriore richiamo ai vincoli euro-unitari era dovuto alla difficile posizione in cui era venuto a trovarsi il nostro Paese in conseguenza di pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea e iniziative di altri organi in ambito europeo che stigmatizzavano gli eccessivi e quasi insuperabili limiti all’azione di responsabilità promossa dai cittadini vittime della cosiddetta mala giustizia.

Il più roccioso tra questi limiti era il filtro preliminare di ammissibilità previsto dalla Legge 117, affidato va da sé ad un organo giudiziario, il quale da sbarramento contro iniziative contro iniziative temerarie e strumentali, era stato trasformato nella “più efficace causa dell’insuccesso della disciplina” e in una sorta di “autorizzazione a procedere” che aveva di fatto garantito “la sostanziale esenzione dei magistrati dalla responsabilità civile” (le espressioni tra virgolette sono tratte da G. Zampetti, Osservazioni su alcuni aspetti processuali della nuova disciplina sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati: profili costituzionali, in Osservatorio costituzionale, fascicolo 3/2016 del 7 novembre 2016).

Il legislatore del 2015, conscio di questa situazione, eliminò il filtro.

La cosa non piacque affatto nell’ambito magistratuale e sia prima che dopo l’approvazione della Legge 18 si levarono fino al cielo gli allarmi sul triste destino che sarebbe spettato non solo ai magistrati ma anche agli italiani tutti per effetto di quella sciagurata mossa del legislatore e sulla sua sicura incostituzionalità (si veda, tra i tanti, lo scritto di L. De Renzis, dal significativo titolo L’eliminazione del “filtro” di ammissibilità nel giudizio di ammissibilità nel giudizio di responsabilità civile dei magistrati. Profili di incostituzionalità della disciplina riformata, incluso in un documento elaborato dalla commissione di studio dell’ANM sulla responsabilità civile dei magistrati (a questo link per la consultazione).

Il diluvio di alert non si esaurì in se stesso e infatti seguirono puntualmente una serie di questioni di legittimità costituzionale sollevate da vari organi giudiziari.

Diamogli un’occhiata così da poterne valutare la pregnanza.

La prima questione, in ordine cronologico, fu posta dal Tribunale di Treviso con un’ordinanza dell’8 maggio 2015 emessa nell’ambito di un giudizio penale nei confronti di un soggetto imputato di illegale detenzione di un ingente quantitativo di tabacchi lavorati esteri.

Affermò quel giudice che il tema essenziale di prova era stabilire se l’imputato fosse consapevole della presenza del tabacco in un magazzino di cui aveva la disponibilità.

La relativa valutazione, in difetto di prove dirette, doveva necessariamente fondarsi su elementi indiziari ed era per ciò stesso particolarmente “difficile e rischiosa”.

Questa situazione era ulteriormente complicata dalle modifiche apportate dalla Legge 18/2015 che, esponendo i magistrati a possibili responsabilità anche per effetto della valutazione di fatti e prove, li privava della necessaria serenità e li spingeva “per forza di cose” verso la decisione meno rischiosa, ordinariamente coincidente con l’assoluzione dell’accusato.

Il giudice rimettente sospettò quindi, anche sulla base di ulteriori corollari, che la complessiva disciplina normativa della responsabilità dei magistrati fosse incostituzionale per violazione degli artt. 3, 25, 101, 104 e 113 della Costituzione.

Pochi giorni dopo, precisamente il 12 maggio 2015, anche il Tribunale di Verona si inserì nella medesima scia.

Il giudizio a quo nasceva dall’opposizione proposta da una società cooperativa contro un decreto ingiuntivo emesso a favore di un’impresa agricola.

Il rimettente ipotizzò, sulla base di una visione affine a quella del Tribunale trevigiano, la possibile violazione degli artt. 3, 24, 25, 81, 101 e 111 Cost.

Seguì l’ordinanza del 6 febbraio 2016 del Tribunale di Catania.

Nel giudizio sottostante si trattava l’opposizione proposta da un datore di lavoro contro l’ordinanza che aveva disposto la reintegrazione di una lavoratrice dopo il suo licenziamento per giusta causa.

Nell’ordinanza di rimessione si osservò che, date la delicatezza della controversia e l’asprezza dei toni delle parti in lite, la novella normativa del 2015 avrebbe potuto privare il decidente dell’indispensabile serenità e indurlo a scegliere non la soluzione giudicata più corretta ma quella “meno rischiosa”.

I giudici etnei ipotizzarono conclusivamente la violazione degli artt. 3, 24, 28, 101, 111 e 113 Cost.

Qualche settimana si aggiunse alla schiera anche il Tribunale di Enna, con un’ordinanza emessa il 25 febbraio 2016.

Nel giudizio a quo si dibatteva di un’opposizione a decreto ingiuntivo emesso a favore di un istituto di credito. Il debitore opponente aveva dedotto l’usurarietà degli interessi applicati dalla banca.

I giudici siciliani rimarcarono la complessità della decisione e ne trassero la convinzione, al pari degli altri Tribunali già menzionati, che l’esercizio della loro funzione decisoria poteva esporli al rischio di un’azione di responsabilità.

Trasmisero pertanto gli atti la Consulta ipotizzando la violazione degli artt. 101, 104, 107 e 134 Cost.

Infine, con ordinanza del 10 maggio 2016, anche il Tribunale di Genova sollevò questione di legittimità costituzionale della normativa in esame, per il suo asserito contrasto con gli artt. 3, 25, 101, 104 e 111 Cost.

Questo fu l’unico caso in cui il giudizio a quo aveva ad oggetto una causa civile risarcitoria promossa ai sensi della legge sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, occasionata dalla dichiarazione di fallimento di una società in accomandita semplice e del suo socio illimitatamente responsabile senza che costui avesse ricevuto un valido avviso dell’udienza in esito alla quale fu appunto pronunciato il fallimento.

I componenti del collegio, a differenza di tutti gli altri giudici di cui si è detto, non paventarono la loro possibile responsabilità personale ma ipotizzarono invece che l’abolizione del filtro preliminare di ammissibilità, da essi stessi ritenuta estensibile anche alle domande inerenti presunti illeciti verificatisi prima della riforma, fosse in contrasto con l’art. 111 Cost. in tema di giusto processo.

Ravvisarono inoltre altre possibili violazioni degli artt. 25, 101 e 104 Cost.

Su tutte le predette questioni, la Consulta, dopo avere riunito i relativi giudizi, si pronunciò con la sentenza 164, decisa all’udienza del 3 aprile 2017 e la cui motivazione fu pubblicata il 12 luglio successivo.

Il giudice delle leggi dichiarò anzitutto inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Treviso, Verona, Enna e Catania, poiché erano state sollevate “a prescindere da qualsiasi considerazione circa una loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio”.

Non rilevava infatti che “tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori della condizione psicologica di questo o quel magistrato, secondo i principi, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza di questa Corte. Si è escluso, infatti, che potesse strutturare il nesso di pregiudizialità, richiesto ai fini di rendere rilevante la questione, il mero richiamo del giudice a quo al turbamento psicologico e della propria serenità di giudizio prodotto dall’applicazione dei «ferri di sicurezza» nelle operazioni di traduzione degli imputati detenuti, «non potendosi ovviamente qualificare per tale una soggettiva situazione psicologica come quella allegata dal giudicante che, oltre tutto, deriva da norme assolutamente estranee all’oggetto del processo principale» (sentenza n. 147 del 1974). Allo stesso modo, si è pure escluso che potessero considerarsi rilevanti, in un qualsiasi giudizio di competenza della Corte dei conti, questioni volte a denunciare l’asserita menomazione della serenità e autonomia di giudizio dei magistrati di detta Corte derivante dal carattere, in assunto, «troppo latamente discrezionale» dei poteri riconosciuti al Presidente della Corte stessa in materia di assegnazione di funzioni e promozioni: le doglianze attenevano, infatti, a disposizioni che non dovevano essere applicate dal giudice rimettente, riflettendo «violazioni solo potenziali ma non attuali delle garanzie costituzionali» (sentenza n. 19 del 1978)”.

La Corte esaminò quindi la questione posta dal Tribunale di Genova.

Sottolineò per prima cosa l’incidenza della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea la quale aveva più volte rimarcato “l’obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell’Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”.

Ne trasse la conclusione che “L’affermazione di tali principi − pur se non immediatamente e specificamente pretensivi dell’abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità” contemplato dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 – ha rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo inevitabilmente per ispirare e permeare l’intervento riformatore, sul punto, della legge n. 18 del 2015. Al riguardo, il legislatore ha ritenuto che, per un verso, l’azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per altro verso, che l’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l’effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato. È appena il caso di sottolineare, al proposito, che l’intervento riformatore non era evidentemente limitabile alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all’origine, anch’esse, di danno per il cittadino”.

Ricordò che “nella materia in esame occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l’amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» (sentenza n. 2 del 1968); dall’altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987)”.

Arrivò quindi alla proposizione essenziale: “In tale cornice di rinnovato bilanciamento normativo − i cui termini sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza − si colloca la scelta legislativa di abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità”, ritenuta funzionale al nuovo impianto normativo, specie se riguardata alla luce dei già ricordati principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla «serenità del giudice» come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale”.

Questo bastò alla Consulta per dichiarare infondate le questioni poste dal Tribunale di Genova “in riferimento ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura e di terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli artt. 101, 104 e 111 Cost.”.

Un analogo giudizio fu riservato a tutte le altre questioni.

Difatti “Infondato è, altresì, il dubbio di costituzionalità avanzato dal giudice a quo in relazione all’art. 3 Cost., sulla base della ritenuta irragionevolezza intrinseca della soppressione del filtro di ammissibilità e della violazione del principio di eguaglianza rispetto alle «pronunce semplificate di inammissibilità» introdotte dal legislatore in rapporto alle impugnazioni ordinarie. Invero, l’ambito del tutto eterogeneo in cui si muove il raffronto prospettato dal rimettente – e rappresentato dagli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., in relazione all’appello, e dagli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ., riguardo al ricorso per cassazione – rende la censura priva di fondamento. La mera «comunanza logica» evocata dal giudice a quo non vale evidentemente ad accomunare normativamente – e, dunque, a rendere comparabili − strumenti deflattivi e semplificativi innestati dal legislatore nel regime delle impugnazioni civili con l’abrogato meccanismo del “filtro di ammissibilità”, il quale riguardava il giudizio di primo grado, la cui disciplina generale non contempla analoghi meccanismi. E ciò anche a prescindere dalla diversità di scopi degli istituti nonché dalla discrezionalità di cui gode il legislatore nelle scelte in materia processuale, il cui limite della manifesta irragionevolezza, ad ogni modo, non risulta, nel caso in esame, travalicato né in senso assoluto, né “per comparazione”.

È altresì infondata la censura dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e di quello principale – agevolata dall’eliminazione del “filtro di ammissibilità” – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o all’astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse nel giudizio intentato nei confronti dello Stato.

A prescindere dalla considerazione che l’identica situazione oggi paventata dal rimettente ben poteva verificarsi anche in vigenza del meccanismo abrogato, è sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 22 luglio 2014, n. 16627), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 giugno 2015, n. 13018 – neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

È infine non fondata la questione in riferimento all’art. 111 Cost., sotto il profilo del contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

Il giudice a quo – motivando tale dubbio di legittimità costituzionale sulla base dell’assunto che, abolito il filtro preliminare, i tempi per pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole» − non considera che detto dubbio dovrebbe per ciò stesso inerire a tutti i giudizi civili ordinari se non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione della domanda simili a quello contemplato dall’abrogato art. 5 della legge n. 117 del 1988. Ciò che rende di evidente precarietà logica la premessa argomentativa del rimettente e, dunque, non fondata la questione che da essa si sviluppa”.

Le opinioni e le interpretazioni sono sempre libere ma, nella mia opinione, la sentenza appena sintetizzata fu di altissimo valore civile prima ancora che giuridico.

Perché disse che non ci si aspetta di avere giudici così tremebondi da porre a base di un’eccezione di illegittimità costituzionale la loro propensione a decidere nel modo più comodo piuttosto che nel modo giusto.

Perché fece piazza pulita di argomentazioni speciose e inconcludenti che non avevano altro scopo se non quello di conservare un privilegio castale.

Perché ricordò che tutti sono soggetti alla legge, anche quelli che la interpretano e la applicano.

Perché riportò su un piano di correttezza e chiarezza il rapporto tra magistrati e cittadini, i secondi non più inermi di fronte agli abusi dei primi.

Perché, infine, disse senza mezzi termini ai magistrati che non tutto è possibile, non tutto è tollerabile.

Fu dunque una storia di allarmi insensati e strumentali.

Possiamo adesso immaginare che anche gli altri di questo periodo attorno alla riforma della prescrizione lo siano altrettanto? Si vedrà.