
Potrebbe sembrare una questione di lana caprina o una sterile esercitazione linguistica, ma in realtà si tratta di una provocazione che mira, per l’appunto, a provocare una riflessione, possibilmente, anche con il sorriso sulle labbra.
Chi scrive è ben consapevole che i mali della giustizia siano ben altri, ma poiché in diritto la forma è sostanza ci si chiede perché mai il legislatore abbia utilizzato proprio questa formula per prevedere la causa estintiva del reato di cui trattasi.
Recita, come noto, l’art. 150 del codice penale: “La morte del reo, avvenuta prima della condanna estingue il reato”.
Per quale ragione il povero defunto debba lasciare questa terra da reo, nonostante il processo nei suoi confronti sia ancora in corso non è dato sapersi.
Non v’è chi non veda come la parola “reo” evochi un’accezione negativa, nonostante gli sforzi giurisprudenziali per edulcolarla, come vedremo.
Sull’Enciclopedia Treccani si legge testualmente, tra l’altro: rèo: agg. e s. m. (f. rèa) [dal lat. reus «accusato, colpevole»]. – 1. a. Autore di un reato, ossia di un’infrazione della norma penale (equivale, nel linguaggio corrente, a «colpevole»; spesso contrapposto a «innocente»:
Anche in letteratura, reo assume il significato di tristo, malvagio, iniquo, crudele così a legger Dante: la mala condotta è la cagion che ’l mondo ha fatto reo e Boccaccio: ove se’ tu rea femina.
Del resto, la parola reità derivata da reo sempre per la Treccani ha il significato principale di colpevolezza.
Anche il linguaggio codicistico e della prassi giudiziaria associa la parola reo e le sue derivate alla colpevolezza.
Si pensi, per tutte, ad espressioni quali “indizi di reità” e “chiamata in correità”.
E si pensi, infine e definitivamente, al termine reato che è strettamente connesso alla parola reo.
Reo l’agente e reato il prodotto del suo agire.
La norma, poi, oltre all’uso quantomeno infelice del termine “reo”, contiene in sé un’altra incertezza lessicale insita nell’uso della parola “condanna” non accompagnata dall’aggettivo specificativo “definitiva”, quasi a lasciar intendere che il reato contestato al defunto condannato in primo o in secondo grado non si estinguesse.
L’architettura della frase con l’uso del vocabolo “reo” unito all’espressione “prima della condanna” non sembrerebbe prevedere che il processo a carico dell’estinto avrebbe potuto avere come esito un’assoluzione, lasciando netta l’impressione che quindi, il poverino se l’è scampata giusto e solo perché sorella morte lo ha accolto tra le sue braccia.
Siffatta stesura della norma manifesta agli occhi di chi legge un’evidente trasandatezza legiferativa che tradisce un totale disinteresse del legislatore rispetto alla sorte della persona che venga a mancare prima che il processo nei suoi confronti sia definito con sentenza, di condanna o di assoluzione, definitiva.
Nessun interesse né rispetto soprattutto della reputazione del de cuius e della memoria che gli eredi ne conserveranno.
Con un minimo di attenzione alla forma, e, quindi alla sostanza, la scelta della parola inserita nell’art. 150 codice Penale avrebbe potuto pacificamente essere diversa.
Si sarebbero potute utilizzare le parole indagato o imputato o, ancora meglio, accusato o incolpato a prescindere dalla fase processuale.
Una scelta formale di tal fatta sarebbe stata in maggiore sintonia con il contenuto sostanziale dell’art. 27 che, come noto, prevede che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Della questione, che evidentemente non è banale né scontata come poteva sembrare, si è occupata anche la Cassazione sez. III Penale, sentenza 26 ottobre 2017 – 9 aprile 2018, n. 15755 prospettando una soluzione non convincente che sembra voler negare l’evidenza ed eludere il peso delle parole.
La Suprema Corte, nell’occasione, pur dichiarando manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 cod. pen. proposta dal difensore dell’imputato ha, però, annullato senza rinvio la sentenza di condanna nei confronti del ricorrente deceduto nelle more della fissazione dell’udienza pubblica, utilizzando la formula “morte dell’imputato” in luogo di quella codicistica “morte del reo”.
In particolare, il difensore sosteneva come la causa estintiva prevista dall’art. 150 c.p. esprimesse in ogni caso un’affermazione di reità, contraria alla presunzione di innocenza che dovrebbe poter essere affermata anche in caso di sopravvenuta morte dell’imputato.
La Corte di cassazione, sostanzialmente richiamando una decisione della Corte costituzionale ha affermato, in modo apodittico, che il legislatore con l’uso del termine reo non voleva intendere colpevole.
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 35 del 1965 aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 350 cod. pen. affermando in maniera curiosa che poiché, nell’uso delle parole, l’importante è che ognuno sappia intenderle nel significato loro attribuito.
Come a dire: c’è scritto A ma se qualcuno gli attribuisse un altro significato si può anche leggere B!
Pur partendo da tale almeno curiosa affermazione, però poi la stessa Corte conclude per facoltizzare i giudici a discostarsi dal tenore letterale dell’art. 350 cod. pen. con l’uso di altre formule affermando che il giudice non è affatto vincolato a ripetere nella decisione le stesse parole del Codice, nulla vietando che egli si avvalga di altro termine, o tecnico, quale “imputato”, oppure privo di ogni qualificazione giuridica“.
Nel maldestro tentativo di non dare peso contrario liberalizzandone la sostituzione alla parola incriminata con altre meno pesanti si finisce per sortire l’effetto contrario.
A futura memoria e col bene placito della Corte costituzionale si può, quindi, chiedere ed ottenere una sentenza che dichiari estinto il reato per morte dell’imputato alias incolpato, alias accusato che almeno, a scanso di equivoci lessicali, potrà non morire da reo e passare a miglior vita con intatta la sua presunzione d’innocenza.

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.