La prima parte del titolo può sembrare la scoperta dell’acqua calda, un po’ come quella verità vista da tutti ma svelata solo dal bambino che urla in mezzo alla folla: “il Re è nudo”, ma è anche la conclusione di questa storia vera, e per niente romanzata.
Una storia che è riaffiorata nella memoria dopo la lettura del saggio di V. Giglio, La giustizia penale ai tempi di Voltaire e il caso di Jean Calas reperibile a questo link, https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2021/02/Giglio_Calas_DPU.pdf incentrato sul Trattato sulla tolleranza (Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas), che racconta dell’ingiustizia subita da un uomo sommariamente processato insieme a tutta la sua famiglia e, quindi, condannato a morte e che ottiene una giustizia solo postuma.
Il contesto storico in cui si svolse il processo a Jean Calas e alla sua famiglia è quello dell’Ancien Regime, mentre la vicenda processuale che mi accingo a raccontare si svolge ai giorni nostri anche se, per alcuni atroci versi, sembra essere accaduta nella stessa epoca.
Come rammenta l’autore nel saggio, citando E. Pontieri, durante l’Ancien Régime, nell’ambito della giustizia penale, regnava l’indeterminatezza, l’imprecisione, l’arbitrarietà e la segretezza… Il sistema delle prove era estremamente arbitrario, completamente nelle mani del giudice istruttore…. La tortura era lecita…
Ebbene, sono, purtroppo, tutti segni distintivi che si ritrovano, in misura minore e con sfumature diverse, e soprattutto, nella fase delle indagini in relazione alle misure cautelari, nei processi contemporanei e anche nella storia realmente accaduta nel XXI secolo che va a principiare.
Quando scelse di fare l’Avvocato, il nostro co-protagonista immaginava, ma non sapeva, non poteva sapere, che cosa avrebbe comportato assumere un ruolo sociale fondamentale di tutela dei diritti delle persone.
Essere, e non semplicemente fare, un avvocato penalista, significa difendere qualcuno anche dall’ingiusta azione persecutoria di quello stesso Stato che ha il compito di amministrare la giustizia.
Chiamarla vocazione è, forse, eccessivo ma di certo si continua ad essere avvocati solo ed esclusivamente perché lo si sente, a prescindere dal risvolto economico.
E lo si fa, spesso, in contrasto con la pubblica opinione dominante e anche, a volte, con i propri stessi pre-giudizi.
E’ quello che per la prima volta accadde al giovane avvocato, co-protagonista di questa storia.
Era un giorno qualunque quando arrivò una telefonata che gli chiedeva, a bruciapelo, se fosse disponibile ad accettare l’incarico di difendere una persona accusata di essere un “pedofilo” inserito in una rete di pedofili e, per questo, recluso in carcere.
La persona che lo chiamava giurava di conoscere Sam, lo chiamerò così con un nome di fantasia, e che avrebbe messo la mano sul fuoco che le schifezze che gli contestavano non potevano essere state da lui nemmeno pensate.
A quel giovane avvocato sembrava una cosa più grande di lui.
Nei discorsi da bar tra amici alla solita domanda su come si fa a difendere un colpevole e simili, primeggiava spesso: difenderesti mai un pedofilo?
La risposta per lui, sino a quel momento, era sempre la stessa, categorica: tutti, ma un pedofilo mai!
La difficoltà ad assumere quell’incarico era immensa perché gli sembrava di tradire in primo luogo sé stesso, i suoi valori, la sua coerenza.
Il tempo però stringeva perché quell’uomo per il quale si richiedeva il suo intervento era privo del prezioso bene della libertà personale e la passione di chi lo proponeva lo convinse, almeno, a vedere le carte, sebbene approcciandosi al caso con diffidenza.
Oggi, a distanza di anni, dopo averne viste un po’, quell’avvocato ormai maturo, ovvero diversamente giovane, accetterebbe l’incarico senza tutta quell’esitazione superando ogni pregiudizio e timore, aggrappandosi al principio che solo una sentenza definitiva, e non sempre, avrebbe potuto accertare se quell’uomo fosse colpevole o meno.
Non è diventato più cinico ma semplicemente maggiormente consapevole che tra un’accusa e la verità c’è di mezzo il mare e pure i monti, e che, in ogni caso, tutti hanno il costituzionale sacrosanto diritto di essere difesi non solo per dimostrare la loro estraneità ai fatti ma anche solo per limitare i danni derivanti dalla colpevole commissione di quei fatti.
In quel momento, però, quel giovane avvocato accettò la sfida solo perché confidava nel fatto che Sam fosse innocente, come chi garantiva per lui spergiurava, non gli interessava altro.
Lo incontrò per la prima volta in carcere e la primissima impressione non fu delle migliori.
Sam era un uomo mite proveniente dal Nordafrica, ben inserito nel nostro contesto sociale che comprendeva e parlava bene l’italiano, quelle poche volte in cui faceva sentire la sua voce.
Eh si, perché Sam era spiazzante: quasi non si difendeva, negava di aver commesso le azioni di cui lo accusavano ma non gridava la sua innocenza, non si strappava i capelli, non si disperava.
Aveva un atteggiamento quasi irritante, rassegnato al destino che lo aveva colpito.
Per lui se Allah voleva così, voleva dire che doveva andare così.
Poiché è quasi impossibile difendere un uomo, che sembra non volersi difendere, rassegnato, privo di reazioni e chiuso in sé stesso, il suo Avvocato avrebbe voluto scuoterlo fisicamente per svegliarlo da quel torpore!
Ma questo non accadde perché quelle quattro mura con le finestre sbarrate ebbero l’effetto di annichilire ogni minima resistenza di Sam, che non riusciva a comprendere che non bastava dire “sono innocente,” ma bisognava fornire elementi e spunti difensivi, e, soprattutto che lo dicessero gli altri, quelli che lo carceravano.
Ciò nonostante, quel giovane Avvocato non si fece annichilire a sua volta, studiò le carte delle indagini, le dichiarazioni dei minori che lo accusavano e iniziò a trovarci dei buchi, delle contraddizioni, delle incertezze che iniziarono a convincerlo sempre di più che qualcosa non quadrava in quell’infamante accusa.
Con i pochi mezzi a sua disposizione svolse delle indagini difensive che gli permisero di basare una prima richiesta di revoca e/o sostituzione della misura custodiale che venne puntualmente e rapidamente rigettata anche perché, affermava quella giudice delle indagini preliminari, bisognava attendere la celebrazione dell’incidente probatorio protetto nel quale sarebbero stati ascoltati i minori.
All’esito degli incidenti probatori nel corso dei quali venne immotivatamente impedito alla difesa di porre domande più che rilevanti, la carcerazione venne mantenuta.
Sam, però, era malato, affetto da una patologia degenerativa, ma nemmeno questo fu sufficiente ad evitargli un anno di carcere preventivo in condizioni pietose.
Un’altra istanza per ragioni di salute venne, infatti, rigettata con la solita straordinaria risolutezza sulla base del fatto che le cure necessarie, sebbene mai iniziate, avrebbero potuto, a dire della giudice, essere somministrate in carcere.
Ma il futuro ipotetico rimase tale e Sam continuava a soffrire le pene dell’inferno nella sezione dedicata a lui e ai presunti “sex offenders” come lui.
Un’ennesima istanza, a seguito del riscontro anche da parte del perito medico che nessuna terapia era stata almeno prescritta, volta a verificare la compatibilità del regime carcerario con le condizioni di salute di Sam venne nuovamente e incredibilmente rigettata, la sua tortura doveva continuare.
In quell’occasione, addirittura, un collaboratore dell’avvocato aveva appurato presso la cancelleria del giudice che la perizia disposta aveva concluso, finalmente, per l’incompatibilità delle condizioni di salute di Sam con la detenzione inframuraria e, quindi, si aspettava una revoca o modifica della misura.
Invece, del tutto inaspettatamente, venne notificato nelle mani dell’incredulo difensore un nuovo rigetto dell’istanza de libertate giustificata da ‘chiarimenti’ richiesti dalla giudice dopo il deposito della perizia per telefono al perito, che non aveva potuto fare altro che concedere che, però, a determinate condizioni (mai avverate né avverabili) la compatibilità poteva sussistere. Come non vedere l’evidente, insomma.
Solo il Tribunale del Riesame, dopo altri giorni interminabili, finalmente, fece carta straccia di quel provvedimento assunto anche in violazione del contraddittorio e rimandò Sam a casa sua riconsegnandogli in parte la libertà, almeno agli arresti domiciliari, avendo accertato che in carcere le cure per lui sarebbero sempre rimaste ipotetiche e, di fatto, impossibili.
Ma non passò nemmeno il tempo di assaporare la notizia che la soddisfazione per l’ottenuta semilibertà venne cancellata da una telefonata: “Avvoca’, sono l’ufficiale della Polizia Penitenziaria che doveva condurre Sam ai domiciliari presso casa sua ma le chiavi che ha non aprono! Guardi non chiamiamo mai, ma ci fa così pena… Per caso ha altre chiavi o sa dove può trovarle?
L’avvocato, ovviamente, di chiavi non ne aveva, né poteva immaginare cosa fosse successo e il povero Sam venne ricondotto in carcere non essendo idoneo il domicilio che aveva indicato.
Sam, scosso dall’episodio, ipotizzò che la serratura potesse essere stata cambiata dal suo coinquilino o, meglio, dall’uomo che gli subaffittava in nero metà dell’appartamento dopo che la sua compagna se ne era allontanata, non potendo sostenere da sola il peso dell’affitto.
Incuriosito da questa rarissima iniziativa proveniente dal suo assistito che, per la prima volta, sembrava mostrare una minima reazione all’ingiustizia che stava subendo, l’Avvocato chiese ulteriori dettagli e la compagna di Sam mostrò alcune foto scattate insieme al soggetto in questione poco prima che lui entrasse in carcere.
Ebbene, la somiglianza col tipo, che chiameremo Tim, era straordinaria!
Il giovane avvocato condusse altre indagini difensive e scoprì che, tra l’altro, Tim era single e titolare di un internet point.
Particolare, questo, molto interessante visto che la stragrande maggioranza degli indagati in quell’inchiesta avrebbe procacciato le relazioni e mantenuto i contatti con i minori proprio attraverso la rete internet mentre Sam non possedeva nemmeno una casella di posta e-mail.
Sottovoce, piano piano, si iniziò a far strada l’ipotesi che i minori non fossero del tutto in malafede ma che avessero sbagliato persona.
Grazie alla disponibilità di un nuovo domicilio e alla lungimiranza del Presidente del Tribunale del Riesame, non senza forti contrasti con la gip sulla rinnovata efficacia dell’ordinanza che aveva, ormai, caducato la misura più gravosa, Sam finalmente riassaporò almeno un minimo di libertà con gli arresti domiciliari e una nuova energia, alimentata dalla speranza.
Energia che, incredibilmente, si affievolì nuovamente, dopo pochi giorni, quando Sam fu colpito dalla TBC e quindi, stante la necessitata revoca di disponibilità della comunità che lo ospitava, dopo il ricovero ospedaliero, nuovamente condotto in carcere, stavolta in un altro carcere dove poteva essere almeno curato dall’infezione.
Una volta superata questa ennesima dura prova e recuperato un altro domicilio, grazie alla carità umana di alcune persone, Sam finalmente poté attendere ai domiciliari il suo giudizio.
Egli, però, non voleva nemmeno sentire la sua famiglia nel paese d’origine perché era convinto che l’infame marchio che gli avevano impresso sulla pelle sarebbe stato cancellato solo da una sentenza di assoluzione.
Il peso sulle spalle di quel giovane avvocato cresceva con l’avvicinarsi del processo che si decise di affrontare nella forma ordinaria del pieno dibattimento senza paracadute di riti alternativi premiali perché Sam continuava sempre a professarsi innocente e non avrebbe accettato alcun genere di compromesso nemmeno, processuale.
Finalmente, arrivò il giorno del dibattimento con la sua scarica di adrenalina ma, soprattutto, con il disvelamento di ogni ombra.
Il faccia a faccia alla luce del sole in Tribunale al cospetto di un collegio formato da giudici finalmente e fortunatamente terzi ed imparziali, tra la difesa di Sam e i suoi accusatori, senza indebite limitazioni alla pienezza del contradittorio, fece emergere la sua totale estraneità ai fatti.
Dopo una serie di colpi di scena, degni di un legal thriller della migliore tradizione, con il Tribunale che ammise un nuovo esame dei minori stante quell’incidente probatorio inquisitorio, addirittura si fece largo l’ipotesi, sebbene mai ufficializzata, che il vero responsabile fosse rimasto indenne da ogni accusa.
Quasi identiche le sembianze fisiche e medesima l’abitazione ma del tutto diversi il modo di vivere, i valori e, soprattutto, i comportamenti.
E dopo due anni e mezzo lunghissimi tra carcere e arresti domiciliari Sam si vide riconosciuta quell’innocenza che, sebbene sommessamente, aveva sempre professato.
Era un uomo libero, sollevato, forse contento, ma non felice. Di certo, non lo stesso uomo di prima, con un cuore divenuto quasi di pietra.
Solo allora, senza l’ombra di quella maledetta accusa sulla schiena, ebbe il coraggio di riabbracciare l’adorata figlia e sentire i suoi parenti africani.
Una sentenza di esseri umani divenuta subito irrevocabile aveva corretto l’errore in cui altri esseri umani erano incorsi stravolgendo la vita di un loro simile senza, probabilmente, aver perso nemmeno un’ora di sonno.
Certo, Sam incassò un discreto indennizzo per l’ingiusta detenzione subita, ma il destino volle che non facesse in tempo ad utilizzare quella somma intrisa di lacrime amare perché lasciò questa terra folgorato da un tumore al cervello dopo pochi mesi di riassaporata libertà.
Il suo desiderio era di usare quei denari per comprarsi una casetta in periferia che avrebbe poi lasciato alla figlia.
Accadde che la figlia si comprò quella casetta con la somma ricevuta in eredità dal padre.
Questa è la storia, o meglio il calvario, di Sam finito nel tritacarne mediatico insieme ad altri come un mostro, sbattuto e tenuto in gabbia come un animale e morto da innocente in un assordante silenzio dopo aver superato una serie infinita di sfortunati accadimenti.
Anche se in tutto questo la fortuna c’entra ben poco.
Ecco, tornando alla domanda inziale si può forse affermare che per Sam la Giustizia sia esistita?
In memoria di Sam non può che convenirsi con il giurista filosofo Montesquieu secondo il quale “Giustizia ritardata è giustizia negata”.
Evidentemente, davvero la Giustizia con la G maiuscola non è di questo mondo.
Un mondo in cui nessuno paga davvero per gli errori che commette nel richiedere, decidere di e continuare a privare un essere umano come lui/lei della libertà personale, valore supremo per la tutela del quale molte vite nel corso della storia sono state sacrificate.
Un mondo del genere non appare lontano dallo scenario che prospettava Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas) sopra citato.
Come Voltaire, così forse anche noi dovremmo porci il problema su cosa potrebbe accadere se un innocente padre di famiglia è abbandonato alle mani dell’errore, o della passione, o del fanatismo; se l’accusato non ha che la sua virtù come difesa; se gli arbitri della sua vita, sgozzandolo, non corrono altro rischio se non quello di aver fatto uno sbaglio; se essi possono commettere impunemente un omicidio con una sentenza, allora la protesta pubblica si alza, ognuno teme per se stesso, ci si rende conto che nessuno è al sicuro della propria vita davanti ad un tribunale eretto per vegliare sulla vita dei cittadini, e tutte le voci si riuniscono per chiedere vendetta.
Ecco, nessuno vorrebbe mai che anche un solo cittadino di quel popolo nel cui nome vengono pronunciate le sentenze insorgesse con violenza di fronte alle ingiustizie ma che, almeno, ognuno ne venisse a conoscenza e maturasse la consapevolezza che, prima o poi. i panni di Sam potrebbero essere i suoi o di una persona a lui vicina.
Sarebbe auspicabile che di fronte alle ingiustizie subite dagli innocenti montasse un’indignazione forte almeno come quella, opposta, che si scatena nei confronti dei mediaticamente colpevoli.
Come conclude amaramente e condivisibilmente Giglio nel saggio citato, invece, Anche l’indignazione sociale è presente ora come allora e anche per questo aspetto il tempo non sembra essere passato ma con una enorme differenza: due secoli e mezzo fa tra i catalizzatori c’era Voltaire e il suo fine era di far sì che la tolleranza diventasse la misura nelle relazioni umane e tra il corpo sociale e le sue istituzioni rappresentative; oggi coloro che hanno i mezzi per provocare ondate di indignazione tendono principalmente all’obiettivo opposto dell’intolleranza.
L’unico rimedio, forse, è fare proprio l’auspicio che Voltaire ha consegnato ai posteri considerando il suo scritto sulla tolleranza come una richiesta che l’umanità presenta molto umilmente al potere e alla prudenza. Semino un granello che potrà un giorno produrre una messe. Tutto dipende dal tempo, dalla bontà del re, dalla saggezza dei suoi ministri e dallo spirito della ragione che comincia a spargere ovunque la sua luce.
Ecco, forse, dico forse, noi, nell’anno Domini 2024 dovremmo poter raccogliere la messe fiorita da quel seme e permetterci non di chiedere ma di esigere che la giustizia che viene amministrata nel nostro nome sia illuminata dal buon senso e dalla tolleranza (nel senso di Voltaire) e che chi, errando, priva un uomo della sua libertà sottoponendolo per di più a trattamenti inumani, paghi il suo errore e, quantomeno, non riceva premi come avanzamenti di carriera et similia.
