Nella cornice del Quaderno di Storia del penale e della giustizia, 1 (2019) La paura. Riflessioni interdisciplinari per un dibattito contemporaneo su violenza, ordine, sicurezza, è incluso il saggio Un punto di vista alternativo? Dal diritto della paura al diritto alla paura di Ombretta Di Giovine.
Ad esso debbo il ricordo dell’avvocato/giornalista Achille Battaglia e del suo pamphlet “Processo alla giustizia” dato alle stampe settant’anni fa.
Tanto per non fare torto a nessuno, l’Autore se la prese con tutti quelli che, a suo modo di vedere, avevano dato vita al “despotismo” giudiziario: polizia, PM, giudici istruttori i quali “ad onta di tutti i precetti costituzionali” erano avvezzi “ad imprigionare a loro talento il cittadino”, a metterne “a soqquadro il domicilio”, a svelarne “i più gelosi segreti” facendosi bastare un mero sospetto.
La verve polemica di Battaglia si indirizzò anche verso i “benpensanti” e l’Autore si disse convinto che se a costoro fosse stato chiesto di scegliere tra cento innocenti in carcere o un delinquente in libertà avrebbero optato in massa per la prima alternativa.
La loro scelta – sosteneva Battaglia – sarebbe dipesa non da un aumento reale della delittuosità ma dal senso di insicurezza e dal bisogno di protezione creati artificialmente da una certa stampa che faceva “di ogni delitto uno strumento […] di propaganda commerciale, di ogni processo uno spettacolo teatrale, di ogni imputato un colpevole, di ogni arresto una ‘brillante operazione di polizia’“.
A tal punto si era incancrenita questa tendenza che la scarcerazione di un cittadino arrestato per errore non era più considerata uno spettacolo per il quale provare orrore ma soltanto una prassi un po’ disdicevole.
Impressiona la lucidità dell’analisi di Battaglia e la sua capacità di cogliere già agli albori un fenomeno che sarebbe diventato massivo solo a distanza di decenni e che si potrebbe definire il diritto penale della paura.
Bisognerebbe soffermarsi su questa denominazione e spiegarne approfonditamente le ragioni ma questo è un blog che si presta bene a pensieri veloci e male a pensieri lenti e strutturati.
Ci si accontenta quindi di proposizioni minime che tuttavia richiedono di essere divise in due categorie.
Violenza come elemento fondativo
È diritto penale della paura quello fondato su un’elevata dose di violenza, assunta come fatto scontato e legittimata senza alcuna reticenza.
Tale violenza è espressa anzitutto nelle proposizioni linguistiche che animano le fattispecie: parole come punizione e pena hanno una palese valenza intimidatoria, anzi sono state create apposta per questo, così che chi le ascolti sappia che preannunciano una violenza e la pongono come conseguenza ineludibile di un comportamento sbagliato.
La violenza è anche nei fatti tipici generati dal diritto penale.
Punizione e pena non esauriscono la loro potenzialità nell’efficacia minacciosa. Esigono di realizzarsi concretamente sul corpo e sull’anima dei destinatari della minaccia. Prendono vita per il solo fatto di essere state pensate e create. Sono applicate perché ci sono, prima ancora che perché qualcuno si è posto nella condizione di subirle. È come se la minaccia, e la pena che ne segna il passaggio dalla potenzialità all’effettività, esigessero le loro vittime prima e a prescindere dall’esistenza di un reo.
Questa considerazione non è di certo in linea con l’ordinario sillogismo per cui la pena segue al comportamento riprovevole. E tuttavia, non sfugge a nessuno che varie fattispecie incriminatrici sembrano create non per tutelare concreti beni giuridici da gravi aggressioni ma per la “necessità politica” di creare e consolidare, a fronte di disagi sociali ora veri ora indotti, un’identità pubblica rassicurante e protettiva. Si pensi, ad esempio, all’aumento progressivo dei reati di pericolo presunto, di sospetto o quasi sospetto, ma anche all’altrettanto progressivo impoverimento della parte descrittiva delle fattispecie. Tutte le volte che questo avviene, la pena perde ogni funzione retributiva e si trasforma in uno strumento di pura violenza, al servizio di uno scopo altrettanto violento.
Punizione come strumento essenziale del populismo
Prendo a prestito le tesi di Massimo Donini espresse nello scritto Il penale come religione di massa e l’ennesima riforma della giustizia, pubblicato il 18 luglio 2023 su Sistema penale (questo il link per chi vuol leggerlo):
“Il populismo basa una parte rilevante del suo potere collettivo, assenti altre ideologie (salvo un generico folklorismo politico di sinistra o di destra), sulla sacralizzazione ora parlamentare, ora giudiziaria, di riti punitivi“.
“C’è un filo conduttore col passato giustizialista o in parte anche col più recente riformismo tecnico-europeista, efficientista e costituzionale del ministero Cartabia. È la drammatizzazione del problema giustizia, la sua rappresentazione come una realtà così gravemente malata da apparire inaccettabile e bisognosa di una innovazione permanente, inesauribile. Tutto è enfatizzato. Giuristi-vati si alternano dalle tribune promettendo soluzioni salvifiche. Questo stato delle cose, che attende sempre un vaccino, una terapia, una riforma, ha qualcosa di religioso: è lo specchio del fatto che è il penale a essere diventato una religione di massa. Il penale salva e condanna“.
“Anche il “nuovo garantismo” di destra-centro si profila come religione di massa: perché mette sempre al centro il penale. Ma lo fa senza prospettare (sino a oggi) un disegno vero, con annunci frammentari che creano polveroni senza costrutto. La discrezionalità dell’azione penale è conciliabile con un p.m. libero dai partiti politici? Se sì, ben venga. Altrimenti si dovrà trovare un compromesso, qualcosa che non lo renda comunque una voce della politica, che sarebbe la definitiva consacrazione della rissa tra i poteri dello Stato. Perché il giudice terzo non potrà mai pensare di “fare giustizia” di fronte a imputazioni scelte politicamente. Sarà sempre e solo amministrazione, e allora tutti avranno capito che questa partita ha bisogno di una diversa narratio, di altre forme di retorica giudiziale, sportiva o bellica. Una american way”.
“Il fatto è che questa religione un po’ è oppio del popolo, e un po’ è instrumentum regni. È oppio perché droga chi si informa, perché è tossica e crea dipendenza, senza risolvere nessun problema, in quanto si sostituisce alla soluzione dei problemi sociali attraverso una lex minus quam perfecta, cioè il diritto punitivo che (almeno tradizionalmente!) non ripara, ma sanziona soltanto. Ma soprattutto è strumento di governo, perché è in ballo un grande regolamento dei conti: nel segno della continuità, del fil rouge tra tutti i diversi governi, che non hanno risolto, ma regolato, alimentato o discusso e gestito questo conflitto.
È infatti evidente che la questione della giustizia che ci occupa la vita quotidiana e politica da dopo Tangentopoli riguarda essenzialmente in primo luogo il potere, cioè il controllo della politica da parte della magistratura o l’invasione di campo della politica, appunto, da parte del potere giudiziario.
Non è una questione che riguardi in primo luogo i “comuni” cittadini, cioè non è per amore dei cittadini, non è per la giustizia dei consociati che ci sono queste continue polemiche. È in gioco il controllo della politica e sulla politica, sulla pubblica amministrazione e sull’impresa“.
Ugualmente preziose le considerazioni del sociologo politico Manuel Anselmi, in M. Anselmi, S. Anastasia, D. Falcinelli, Populismo penale. Una prospettiva italiana, CEDAM, 2015,che si esprime così:
“Nella numerosa famiglia dei populismi, quello penale si caratterizza per la non necessaria riconducibilità a un leader carismatico che stabilisce con il popolo una dinamica di consenso alla luce di una crisi istituzionale, come invece avviene nei più conosciuti populismi politici.
Il populismo penale è quindi un fenomeno acefalo e per questo meno visibile, che consiste nell’uso distorto di informazioni, in prassi sociali che investono vari settori della società, in comportamenti collettivi e rappresentazioni sociali diffusi che contribuiscono all’alterazione di contenuti relativi alla giustizia con una finalità politica. Sotto questa larga etichetta possiamo far rientrare la manipolazione dei dati sulla criminalità nelle campagne elettorali, le campagne di “tolleranza zero”, la resistenza tutta italiana a introdurre il reato di tortura, la criminalizzazione dello straniero, ma anche la glamourizzazione dei magistrati e quello che in Italia siamo soliti chiamare in modo vago e troppo spesso assolutorio “giustizialismo”.
Il populismo penale esercita una costante azione di delegittimazione sociale delle istituzioni in materia di giustizia, indebolendo di fatto ciò che definiamo lo stato di diritto.
Tutto ciò è favorito dalla complicità di molte redazioni che per non perdere il consenso dei lettori/spettatori lo cavalcano senza alcuna remora deontologica.
Al rispetto dei fatti giuridici (ebbene sì, esistono anche i fatti giuridici) si è ormai sostituita uno stile giornalistico basato sul kitsch-emozionale, dove prioritario è l’effetto di senso sentimentale sul lettore/spettatore.
Un effetto di senso che lusinga il destinatario secondo un’accorta retorica, i cui stilemi sono l’indignazione costante, il compiacimento dell’impotenza politica, la sfiducia per le istituzioni e il risentimento permanente per una dimensione privilegiata e ingiusta che lo esclude.
E il fatto di cronaca resta solo un pretesto per ribadire tutto questo periodicamente, quasi fosse un rituale“.
Per finire
Si è visto quanta importanza abbia la paura nelle dinamiche collettive e individuali del nostro tempo e quanto uso e abuso se ne faccia nelle politiche pubbliche, tanto da arrivare a crearla artificialmente per poter poi dare risposte tanto rassicuranti quanto ingannatorie.
Non a caso Zygmunt Bauman, nel suo saggio Il demone della paura, Editori Laterza, 2014, la considera alla stregua di un maleficio in conseguenza del quale ci si fa guidare da mantra più che da pensieri razionali:
“Legge e ordine, slogan ridotto sempre più alla promessa di incolumità personale (più precisamente, fisica), è diventato uno dei principali, forse il principale selling point dei manifesti politici e delle campagne elettorali; e mettere in mostra le minacce all’incolumità personale è diventata una delle principali, se non la principale risorsa nella guerra degli ascolti tra mass media, rimpinguando continuamente il capitale della paura e rendendone ancora più efficace l’utilizzo, sia commerciale che politico. Come dice Ray Surette, il mondo visto alla tv somiglia a una “citizen-sheep”, una cittadinanza-gregge protetta dalle aggressioni dei “criminali-lupi” ad opera dei “poliziotti-cane da pastore“.
La paura esige le sue vittime e la loro epurazione:
“L’esclusione oggi non è percepita come l’esito di una cattiva sorte momentanea e rimediabile, trasuda un’aria di sentenza inappellabile. Sempre più spesso, oggi, l’esclusione tende a essere una strada a senso unico (e a essere percepita come tale). Una volta bruciati, i ponti molto difficilmente verranno ricostruiti. Sono l’irrevocabilità della loro esclusione e le scarse possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza che trasformano gli esclusi contemporanei in “classi pericolose”“.
Bauman propone un antidoto: che ognuno eserciti i suoi diritti, che non li baratti per un piatto di lenticchie, che non rinunci a scegliere.
Perché, dice citando Karl Marx, “la maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi“.
Ed allora, per chi non vuole essere né pecora né lupo né cane pastore, l’unico rimedio è quello solito, non farsi dire da nessun altro cosa pensare e come vivere.
