Assoluzione e equivalenza tra il comma 2 e il comma 1 dell’articolo 530 c.p.p. (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 3 con la sentenza numero 51436/2023 ha ribadito l’equivalenza delle formule assolutorie ex art. 530, commi 1 e 2, cod. proc. pen.

La Suprema Corte ha stabilito che nel vigente sistema processuale, l’assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove equivale a tutti gli effetti alla mancanza assoluta di prove, tanto è vero che costituisce pronuncia più favorevole rispetto a quella di estinzione del reato (da ultimo ribadita da cassazione Sez. 3, n. 43598 del 27/10/2022, non massimata e cassazione Sez. 2, n. 39960 del 5 settembre 2018).

Nella sentenza richiamata numero 43598/2022, la Suprema Corte rileva che non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, pronunciata ex art. 530, comma 2, c.p.p. (per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova) in quanto tale formulazione non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria, né segnala residue perplessità sull’innocenza dell’imputato, né tantomeno spiega minore valenza con riferimento ai giudizi civili come comprovato dal tenore letterale degli artt. 652 e 654 c.p.p.

Pertanto, essa non può in alcun modo essere equiparata alla assoluzione per insufficienza di prove prevista dal previgente codice di rito (sul punto Sez. 5, n. 49580 del 26/09/2014 – dep. 27/11/2014, Rv. 261341 – 01, secondo cui “non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, pronunciata ex art. 530, comma 2, c.p.p. – per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova – in quanto tale formulazione non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria né segnala residue perplessità sulla innocenza dell’imputato, né spiega minore valenza con riferimento ai giudizi civili, come comprovato dal tenore letterale degli art. 652 e 654 c.p.p.; pertanto, essa non può in alcun modo essere equiparata all’assoluzione per insufficienza di prove prevista dal previgente codice di rito“. Il principio è stato ribadito con riferimento alla formula assolutoria per non aver commesso il fatto ex art. 530 c.p.p., comma 2, anche da Sez. 3, n. 51445 del 15/09/2016 – dep. 02/12/2016, Rv. 268397 – 01, secondo cui “non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. – per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova – in quanto tale formula non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p., anche in ordine agli effetti extrapenali“.

Non sussiste, dunque, alcuna sostanziale differenza in termini giuridici tra le due formule assolutorie in oggetto, delineando i primi due commi dell’art. 530 c.p.p. canoni di giudizio il cui valore finale è equivalente, visto che nell’attuale ordinamento processuale penalistico l’onere della prova in ordine alla sussistenza del reato incombe solo sull’accusa, con la conseguenza che, a seguito del mancato adempimento di tale onere probatorio (non importando se perché carente, contraddittorio o del tutto mancante), la regola di giudizio che si trae dal complesso della disciplina di cui ai primi due commi dell’art. 530 c.p.p. impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento che ha comunque valore di assoluzione piena dal reato ascritto.

La prassi di specificare, nel dispositivo assolutorio, il primo o comma secondo dell’art. 530 c.p.p. corrisponde solo ad un’esigenza (non necessaria ex lege) di rendere esplicito al momento della decisione il canone di giudizio adottato dal giudice, ma non attribuisce un valore giuridico diverso alla pronuncia assolutoria, che resta piena in entrambi i casi.

Conseguentemente, nessun concreto pregiudizio può derivare all’imputato dalla specifica indicazione nel dispositivo del comma 2 dell’art. 530 c.p.p., piuttosto che del comma 1 (si veda Sez. 4, n. 41369 del 19/06/2018 – dep. 25/09/2018, Rv. 274033 – 01, secondo cui inoltre “non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione, pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. – per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova – al fine di ottenere una pronuncia ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, in quanto tale formula assolutoria non comporta una maggior pregnanza neanche in ordine agli effetti extrapenali“.

Pertanto, la presunta differenziazione basata sui commi 1 e 2 dell’art. 530 c.p.p. (che ha determinato la Procura generale della Corte di cassazione a ritenere che la formula di assoluzione adottata ed i rilievi motivazionali espressi dalla Corte territoriale non lascino dubbi in merito ad una non evidente insussistenza del fatto di reato e, come tale, sia dunque inidonea a recidere il nesso intercorrente tra il delitto procedibile a querela e quello procedibile d’ufficio), si rivela in conclusione non sostenibile.