Gli innumerevoli casi di ingiusta detenzione e, comunque, di errori giudiziari che, purtroppo, si susseguono nelle nostre aule di giustizia come Terzultima Fermata testimonia con assiduità e si cita per tutti, il caso Zuncheddu (https://terzultimafermata.blog/2023/12/13/caso-zuncheddu-la-strabiliante-notizia-dellidentikit-mai-acquisito-agli-atti-del-processo-di-riccardo-radi/), dovrebbero sollecitare il nostro legislatore a trovare una soluzione a quello che, evidentemente, è un grave vulnus del nostro sistema giudiziario.
Forse, addirittura, basterebbe, almeno per limitare i danni, rafforzare alcuni istituti già previsti nel nostro ordinamento.
Ce ne viene in mente uno, ad esempio, noto probabilmente per lo più agli studenti universitari e ai romantici coltivatori del diritto, quello previsto dall’art. 358 del codice di procedura penale che pone a carico del PM lo svolgimento di “accertamenti su fatti e circostanze a favore delle persone sottoposte alle indagini“.
È una norma applicata? È un principio di civiltà giuridica garantito?
A me, in oltre 20 anni di professione, è capitato di vederlo applicato solo in tre occasioni nelle quali i PM, con indiscutibile onestà intellettuale, hanno fatto marcia indietro dopo aver disposto indagini nella direzione prospettata dalla difesa e rinvenuto elementi favorevoli agli indagati di turno.
Del resto, ogni precetto per essere tale dovrebbe pur prevedere una qualche conseguenza in caso di inosservanza e, invece, la norma appare messa lì quasi per caso e negli anni si è solo riempita di polvere come un soprammobile decorativo.
Cartina di tornasole dello scarsissimo utilizzo che si è fatto di questo, pur previsto, istituto è anche la quasi totale assenza di giurisprudenza al riguardo.
Ho, infatti, rinvenuto pochissime pronunce della Corte di cassazione che sostanzialmente, ne ha avallato la qualifica di dichiarazione di intenti piuttosto che di precetto normativo da seguire.
Così con sentenza n. 47013 del 16/10/2018, la Cassazione sez. 3^ penale (conforme alla precedente sentenza n. 10061 del 4 marzo 2013 Cassazione penale, sez. 2^) ha ritenuto che il dovere del pubblico ministero di svolgere attività d’indagine a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione fondato sulla mancata assunzione di una prova decisiva.
Con tali decisioni la Corte ha chiarito che la valutazione della necessità di accertare fatti e circostanze favorevoli spetta unicamente al pubblico ministero, che agisce come organo di giustizia, non essendo vincolato, in tale veste, dalle indicazioni della difesa che, dal canto suo, può comunque svolgere attività di indagine in via autonoma rispetto al P.M. nonché formulare proprie richieste istruttorie nel giudizio ordinario o abbreviato.
E anche in materia cautelare la situazione non cambia, posto che con sentenza n. 53160 del 15/12/2016 la Cassazione penale, sez. sesta, ha chiarito che in tema di riesame dei provvedimenti di sequestro, il pubblico ministero ha l’obbligo di trasmettere i soli atti posti a sostegno del provvedimento impugnato, in quanto l’art. 324, comma terzo, cod. proc. pen. non contiene alcun rinvio alla previsione che, in relazione alle misure cautelari personali, impone la trasmissione degli atti a favore della persona sottoposta ad indagini.
Del resto, già nel lontano 1997 la Corte costituzionale aveva dichiarato manifestamente infondata un’eccezione di incostituzionalità, con cui si deduceva il contrasto dell’art. 358 c.p.p. con norme costituzionali, in quanto “non si prevedevano sanzioni processuali per l’inosservanza, da parte del pubblico ministero, dell’obbligo di acquisire elementi anche a favore dell’indagato”.
Con la pronuncia citata la Consulta ha precisato che, il compimento di indagini anche a favore della persona indagata, servirebbe unicamente ad “evitare l’instaurazione di un processo superfluo”, stante il fatto che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale non comporta l’obbligo di esercitare l’azione ogni qualvolta il pubblico ministero sia stato raggiunto da una notizia di reato, ma va razionalmente contemperato con il fine –appunto– di evitare l’instaurazione di un processo superfluo”.
Con tutto il rispetto per il Giudice delle leggi, un’interpretazione di tal fatta sembrerebbe stridere con il dato letterale della norma che non sembra affatto volta a tutelare un principio di fredda economia processuale ma, piuttosto, ad indirizzare il PM a ricercare la verità accertando i fatti a tutto tondo senza fossilizzarsi pregiudizievolmente sull’ipotesi accusatoria.
L’attenzione, quindi, andrebbe spostata sulla persona ingiustamente indagata e processata pur in presenza di elementi a suo discarico che, evidentemente, solo l’Ufficio della Procura con la sua potenza investigativa potrebbe portare alla luce.
Stando così le cose, parte della dottrina e alcune forze politiche, sostenendo correttamente che l’inerzia del PM non è sostituibile dalle indagini della difesa, notoriamente e oggettivamente dotata di minori risorse e strumenti investigativi, hanno tentato, vanamente, di introdurre una modifica dell’art. 358 c.p.p. che prevedesse un obbligo in capo al PM di svolgere accertamenti anche a favore della persona indagata, a pena di inutilizzabilità di tutta l’attività svolta nel corso delle indagini preliminari e di darne successiva notizia alla persona sottoposta alle indagini e al suo difensore, tramite inserimento nel fascicolo, anteriormente alla presentazione della richiesta di archiviazione, ex art. 408 c.p.p. o della richiesta di notificazione della conclusione delle indagini, ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p.
In prospettiva futura, a mio avviso, tale soluzione andrebbe coltivata, posto che solo con l’introduzione di una sanzione processuale alla sua inosservanza il precetto potrebbe rivelarsi davvero efficace e, con molta probabilità, molte carcerazioni e condanne ingiuste potrebbero essere evitate con, anche, la pragmatica conseguenza di tempo guadagnato dalle procure per concentrarsi su altre indagini.
Per rimanere al caso di Beniamino Zuncheddu, ad esempio, se l’identikit, nella fase delle indagini fuori dalla portata di conoscenza della difesa, fosse stato sin da subito portato come elemento a favore dell’indagato ne sarebbe probabilmente emersa prima la totale estraneità.
Ritengo in conclusione, senza l’illusione che la soluzione possa essere la panacea di tutti i mali, che, però, prevenire sia decisamente meglio che curare, considerato inoltre che una nessuna cura può davvero rimediare alle sofferenze di chi è stato ingiustamente privato della propria libertà personale.
