Difendersi accusando: configurabilità della calunnia (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 6 con la sentenza numero 48749 depositata il 6 dicembre 2023 si è occupata della configurabilità della calunnia e della scriminante del diritto di difesa dell’imputato che affermi falsamente davanti all’autorità giudiziaria fatti tali da coinvolgere altre persone, che sa essere innocenti, nella responsabilità per il reato a lui ascritto.

Il tema dedotto è oggetto di sentenze di segno opposto ed implica la configurabilità di una scriminante, tale da escludere l’antigiuridicità del fatto.

Fatto

Il ricorrente nel corso dell’interrogatorio indica F.F. quale soggetto da cui aveva ricevuto l’assegno risultato proveniente da furto, ed invoca la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa agli effetti dell’art. 51 cod. pen. in quanto era strettamente collegato ad una fase del procedimento e direttamente funzionale alla sua difesa, quale unico concreto mezzo a sua disposizione.

Decisione

Si tratta di impostazione che trova riscontro in alcune sentenze, nelle quali si è affermato che «in tema di calunnia, non esorbita dai limiti del diritto di difesa l’imputato che affermi falsamente davanti all’Autorità giudiziaria fatti tali da coinvolgere altre persone, che sa essere innocenti, nella responsabilità per il reato a lui ascritto, purché la mendace dichiarazione costituisca l’unico indispensabile mezzo per confutare la fondatezza dell’imputazione, secondo un rigoroso rapporto di connessione funzionale tra l’accusa (implicita od esplicita) formulata dall’imputato e l’oggetto della contestazione nei suoi confronti, e sia contenuta in termini di stretta essenzialità» (Sez. 6, n.33754 del 25/05/2022, Rv. 283882; Sez. 6, n. 40886 del 08/03/2018, G., Rv. 274147; Sez. 6, n. 14042 del 02/10/2014, dep. 2015, Rv. 262972).

Va tuttavia rimarcato come il tema formi oggetto di un diverso orientamento, in forza del quale si afferma che «in tema di rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose, l’imputato, nel corso del procedimento instaurato a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui sfavorevoli, ma commette il reato di calunnia quando non si limita a ribadire la insussistenza delle accuse a lui addebitate, ma assume ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore – di cui pure conosce l’innocenza – nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto» (Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, dep. 2018, Lusi, Rv. 272755; Sez. 6, n.18755 del 16/04/2015, Scagnelli, Rv. 263550; Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013, Knox, Rv. 255678; Sez. 2, n. 2740 del 14/10/2009, dep. 2010, Zolli, Rv. 272755).

In tale quadro si è inserita un’ulteriore sentenza che, nel valutare i difformi orientamenti, ha riaffermato il secondo, sulla base di una pluralità di argomenti (si richiama Sez. 2, n. 17705 del 31/01/2022, Rv. 283336, i cui principi sono stati successivamente ribaditi da Sez. 5, n. 38729 del 01/06/2023, non massimata).

Deve, su un piano generale, rimarcarsi come il diritto di difesa, pur costituzionalmente sancito, abbia dei limiti esterni, desumibili dalla concomitante necessità di tutelare valori di pari rango, in concreto espressi da altre norme dell’ordinamento ed anche dal sistema penale.

In particolare, appare evidente come la difesa di un soggetto non possa oltrepassare la soglia dell’ingiustificata aggressione di beni parimenti tutelati, fra l’altro tali da implicare l’apprestamento di adeguate garanzie, come nel caso della formulazione di false incolpazioni a carico di terzi, di cui si conosca l’innocenza, la cui posizione deve essere parimenti salvaguardata in ragione del valore primario della loro dignità e della loro libertà.

Ciò vai quanto dire che il diritto di difesa del singolo costituisce sua prerogativa nel quadro di un assetto complessivo dei rapporti intercorrenti tra soggetti che godono di pari garanzie di ordine costituzionale, cosicché l’esercizio del diritto deve esprimersi con riguardo al tema d’accusa e mantenersi all’interno dei dati fattuali ad esso riconducibili, senza travalicare la sfera di tutela di altri soggetti.

Ben si comprende dunque che sia sempre legittima la negazione della validità degli elementi a carico e in tale ambito la formulazione di assunti volti in varia guisa a screditarli, ma senza che ciò possa contemporaneamente tradursi in false accuse specifiche a carico di terzi, in tal modo oltrepassando e non solo lambendo il confine oltre il quale vengono in rilievo le garanzie apprestate dall’ordinamento a tutela dei terzi.

La Suprema Corte sottolinea che tale analisi non si fonda su valutazioni astratte, ma anche su argomenti specifici desumibili dal sistema penale.

Va infatti rimarcato come il diritto di difesa, per come invocato dall’orientamento qui non condiviso, implichi l’esclusione dell’antigiuridicità della condotta, di essa non potendosi predicare il contrasto con l’ordinamento e con la sfera dei valori da esso tutelati.

Tuttavia, deve rilevarsi come in senso contrario deponga la formulazione dell’art. 384 cod. pen.

Tale norma, al primo comma, prevede che chiunque commetta uno dei reati contro l’amministrazione della giustizia specificamente indicati non è punibile se ha agito in quanto costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

Orbene, tale norma non contempla l’ipotesi del delitto di calunnia di cui all’art. 368 cod. pen.

Non approfonditi (in verità, neppure dalla dottrina) sono, invece, i rapporti tra l’istituto di cui all’art. 384 cod. pen. e la causa di giustificazione o scriminante di cui all’art. 51, comma primo, prima parte, cod. pen., la cui ricostruzione può, a parere del collegio, fornire argomenti utili ai fini della risoluzione del contrasto.

L’art. 384, comma primo, cod. pen. stabilisce, in riferimento ad un elevato numero di delitti contro l’amministrazione della giustizia, la non punibilità del soggetto che abbia commesso il reato, per quello che in questa sede rileva, perché “costretto dalla necessità di salvare sé stesso da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà”, come accade nel caso in cui in cui il soggetto agente abbia inteso evitare un’accusa penale nei suoi confronti (Sez. 6, n. 16443 del 25/03/2015, Rv. 263579 – 01; Sez. 6, n. 52118 del 02/12/2014, Rv. 261668 – 01).

La predetta disposizione prevede una causa di esclusione della colpevolezza (Sez. U, n. 10381 del 26/11/2020, dep. 2021, Rv. 280574 – 01) e non, come l’art. 51 cod. pen., dell’antigiuridicità della condotta, in quanto rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate al comma primo di tale norma (Sez. 6, n. 53939 del 20/11/2018, Rv. 274583 – 01): la causa di esclusione della colpevolezza prevista dall’art. 384 cod. pen. e la scriminante di cui all’art. 51 cod. pen. operano, quindi, su piani diversi, la prima non escludendo l’antigiuridicità del fatto, ma la colpevolezza dell’agente, la seconda escludendo l’antigiuridicità del fatto.

In riferimento al delitto di calunnia, il legislatore ha espressamente escluso l’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma primo, cod. pen., in considerazione degli interessi che la commissione di tale reato lede, potendosi attraverso la sua commissione, ad un tempo, intralciare la corretta amministrazione della giustizia e porre in pericolo la libertà e l’onore di persone che il soggetto sa essere innocenti rispetto all’accusa nei loro confronti formulata (Sez. 6, n. 21789 del 28/04/2010, Rv. 247116 – 01).

Proprio tale esclusione, prevista da una disposizione speciale operante soltanto in riferimento ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, consente di ritenere, in adesione al secondo degli indicati orientamenti, che nessuno spazio residui per l’operatività dell’esercizio del diritto scriminante di difesa ex art. 51, comma primo, prima parte, cod. pen., nei casi in cui, sia pure nell’esercizio di tale diritto, sia stato commesso il delitto di calunnia, ovvero in cui l’imputato (lungi dal limitarsi ad una mera e generica negazione della fondatezza degli addebiti mossigli e/o della veridicità degli elementi di accusa) si sia difeso accusando specificamente terzi di aver commesso reati dai quali li sappia innocenti.

Invero, l’esclusione del delitto di calunnia dal novero di quelli in relazione ai quali opera la causa di esclusione della colpevolezza di cui all’art. 384, comma primo, cod. pen., prevista dalla predetta disposizione speciale, comporta all’evidenza che, con specifico riferimento al delitto di calunnia, l’esercizio del diritto di difesa (che porti il soggetto agente ad incolpare falsamente un terzo di reati dai quali lo sappia innocente) non faccia mai venir meno la colpevolezza dell’agente, ed, a fortiori, l’antigiuridicità della condotta (poiché, se questa mancasse, non vi sarebbe motivo per prevedere che non venga comunque meno la colpevolezza, essendo quest’ultima verifica necessariamente e logicamente successiva).

La disposizione speciale di cui all’art. 384, comma primo, cod. pen. consente, quindi, di ritenere che, tra i reati (contro l’amministrazione della giustizia) che è tipicamente possibile compiere nell’esercizio del diritto di difendere sé od altri da un’accusa penale, nel caso in cui la condotta dell’agente si concretizzi nella formulazione di accuse specificamente calunniose, come tali suscettibili di integrare il delitto di cui all’art. 368 cod. pen., essa è certamente antigiuridica; ciò premesso, la disposizione stabilisce espressamente che non viene, inoltre, meno la colpevolezza dell’agente.

Nessuno spazio residua, pertanto, per l’operatività della disposizione generale di cui all’art. 51, comma primo, prima parte, cod. pen., che inciderebbe sull’antigiuridicità della condotta.

Tale conclusione appare certamente in linea con la già indicata ratio dell’esclusione della calunnia dal novero dei reati in ordine ai quali può operare la causa di esclusione della colpevolezza di cui all’art. 384, comma primo, cod. pen., potendosi attraverso la calunnia, ad un tempo, intralciare la corretta  amministrazione della giustizia e porre in pericolo la libertà e l’onore di persone che il soggetto sa essere innocenti rispetto all’accusa nei loro confronti formulata.

Essa appare, inoltre, in linea con gli stessi limiti che pacificamente si ritiene incontri l’esercizio scriminante di un diritto.

La cassazione ha già osservato, in generale, che l’esercizio del diritto scrimina soltanto nei limiti entro i quali esso possa ritenersi legittimo, «essendo necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione» (Sez. U, n. 32009 del 27/06/2006, Schera, in motivazione: in applicazione del principio, è stata negata la sussistenza dell’esercizio scriminante del diritto di difesa in relazione alla condotta di favoreggiamento personale ex art. 378 cod. pen. contestata ad un avvocato che aveva falsamente verbalizzato, a vantaggio del suo cliente, dichiarazioni testimoniali assunte nell’ambito di investigazioni difensive ex art. 391-bis cod. proc. pen.).

L’esercizio scriminante del diritto incontra, infatti, limiti che vanno desunti dalla sua stessa fonte, oltre che dall’intero ordinamento: quando tali limiti sono superati, sono configurabili ipotesi di abuso del diritto, ed il comportamento dell’agente esula dall’ambito consentito dall’art. 51 cod. pen. La dottrina ha, in proposito, condivisibilmente chiarito che, «quando il diritto è riconosciuto dalla Costituzione (es. diritto di sciopero, di manifestazione del pensiero: artt. 40 e 21 Cost.), il suo contenuto ed i suoi limiti non possono essere ricavati dalla legge ordinaria (neppure penale), ma devono essere ricostruiti in base alla natura stessa del diritto di cui si tratta (limiti “interni” o “logici”), nonché ai principi generali dell’ordinamento ed altre norme costituzionali, con correlative esigenze di tutela di altri interessi, per la cui salvaguardia potranno allora essere predisposte anche, p.e., leggi penali (limiti “esterni”)».

In particolare, la riconosciuta esistenza di “limiti esterni” all’esercizio scriminante (anche) del diritto di difesa legittima le conclusioni cui si è ritenuto di addivenire.

Per tali ragioni, il motivo, con il quale il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello non abbia configurato in suo favore la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di difesa, non può essere accolto, non potendo mai configurarsi un esercizio scriminante del diritto di difesa in riferimento al delitto di calunnia.

Alla luce di quanto rilevato deve, dunque, ritenersi che i giudici di merito abbiano correttamente ravvisato il delitto di calunnia nella condotta del ricorrente, che ha inteso difendersi attribuendo falsamente ad un terzo la responsabilità di avergli consegnato l’assegno di provenienza furtiva, di cui era entrato in possesso.