Marito che stringe il collo della moglie fino a sollevarla da terra: è tentato omicidio anche se le lesioni prodotte sono di scarsa entità (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 48845/2023, udienza del 7 luglio 2023, ha affrontato un ennesimo episodio di violenza in ambito familiare, questa volta caratterizzato da un tentativo di strangolamento del marito in danno della moglie, fortunatamente interrotto dal figlio.

Vicenda giudiziaria

Il ricorrente è stato giudicato responsabile da entrambi i giudici di merito dei delitti di tentato omicidio in danno della moglie e di maltrattamenti in famiglia.

Risulta dalla sentenza impugnata che la vittima aveva chiesto l’intervento dei carabinieri in quanto il marito aveva tentato di strangolarla.

Dalle dichiarazioni rese dalla donna e confermate dal figlio minore, rese nel corso delle indagini preliminari e quindi confermate in incidente probatorio, che era intervenuto in aiuto della madre, il ricorrente aveva afferrato la donna per il collo, l’aveva spinta contro il muro e, esercitando una pressione crescente, l’aveva sollevata da terra, provocandone l’offuscamento della vista e una momentanea perdita di conoscenza.

L’azione era stata interrotta dall’intervento del figlio che aveva afferrato le braccia del padre e lo aveva indotto a lasciare la presa. Dal referto del pronto soccorso era risultava che la vittima presentava in regione laterocervicale quattro aree ecchimotiche di circa 5 cm x 1 cm.

Le dichiarazioni della donna e del figlio avevano altresì messo in luce il quadro di maltrattamenti cui la prima era stata sottoposta per anni.

Ricorso per cassazione

Con un unico articolato motivo la difesa del ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la Corte territoriale avrebbe pretermesso elementi di prova a discarico del ricorrente, che avrebbero consentito una lettura diversa degli eventi, in quanto sarebbero incompatibili con la idoneità dell’azione a cagionare la morte della persona offesa.

In particolare, la difesa rileva che, benché l’area interessata dalle ecchimosi fosse costituita dal collo, tuttavia le lesioni non avevano interessato la regione cervicale, né quella carotide e laringea, ma unicamente in regione laterocervicale destra del collo. Ciò attesterebbe l’inidoneità dell’azione a provocare la morte.

Nello stesso senso deporrebbero altri elementi trascurati dalla Corte territoriale e cioè la circostanza che la presa del collo era avvenuta con la mano sinistra da parte di soggetto destrorso non dotato di particolare muscolatura, il mancato utilizzo della mano destra e l’aver sollevato la persona offesa da terra.

Tali elementi attesterebbero la scarsa carica lesiva dell’azione e dunque la mera volontà dell’imputato di ledere. Inoltre, mancherebbero segni clinici premonitori dell’evento morte, non essendo l’annebbiamento della vista della persona offesa, valorizzato dai giudici di merito, un parametro tecnico-scientifico, ed essendo comunque smentito dal referto del Pronto soccorso.

Decisione della Corte di cassazione

La Corte territoriale ha tenuto puntualmente conto degli elementi che, secondo il ricorrente avrebbero escluso l’idoneità dell’azione a cagionare la morte della persona offesa, nonché la sussistenza dell’animus necandi.

In modo argomentato e analitico la sentenza impugnata, dopo aver descritto la condotta dell’imputato, il quale aveva afferrato la moglie per il collo, l’aveva spinta contro il muro e l’aveva sollevata da terra, provocandone il temporaneo offuscamento della vista e la momentanea perdita di conoscenza, ha spiegato, avvalendosi delle risultanze della perizia, che il collo è sede di organi vitali e che la loro compromissione può determinare gravi conseguenze, che da un iniziale venir meno della coscienza – come avvenuto nella specie – possono condurre alla morte.

La Corte ha altresì evidenziato che, non solo la sede corporea attinta, ma anche le modalità dell’azione, ed in particolare le caratteristiche del mezzo utilizzato confermavano l’idoneità dell’azione a cagionare la morte della vittima.

Essa, invero, era resa evidente dalla intensità della presa esercitata sul collo, che era stata tale da cagionare le quattro ecchimosi riscontrate al pronto soccorso, dell’ampiezza di 5 cm x 1 cm, tre con andamento obliquo e tra loro parallele e una verticale.

Altrettanto significativo della forza utilizzata era stato l’annebbiamento della vista e la temporanea perdita della coscienza cagionata alla vittima.

La Corte territoriale ha altresì spiegato in modo ineccepibile che tali circostanze erano di pregnanza tale da rendere irrilevante che la persona offesa non presentasse i sintomi indicati dal consulente della difesa (disfonia, disfagia, scialorrea o dispnea).

Conferma della intensità della forza utilizzata dal ricorrente – e dunque infondatezza della tesi difensiva secondo cui costui non avrebbe esercitato una pressione intensa – è stata rinvenuta nelle spontanee dichiarazioni del ricorrente medesimo, che aveva riconosciuto di avere stretto troppo la presa.

Le argomentazioni svolte dai giudici del merito risultano senz’altro coerenti con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto (ex plurimis, Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 18/03/2019, Rv. 275012; Sez. 1, 4.3.2010, n. 27918, Rv. 248305).

Inoltre, i giudici di legittimità hanno costantemente affermato che «in tema di delitti contro la persona, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata nonché dalle modalità dell’atto lesivo (Cass. Sez. 1, 27.11.2013, n. 51056, Rv. 257881; Sez. 1, n. 24173 del 05/04/2022, Rv. 283390).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, al fine di ritenere integrati i presupposti del delitto di tentato omicidio ha evidenziato come le modalità dell’azione, ed in particolare la veemenza della condotta, la forza esercitata sulla vittima, nonché la circostanza che l’aggressione era stata interrotta solo dall’intervento del figlio minore, sopraggiunto in aiuto della madre, evidenziassero sia l’idoneità della condotta del ricorrente a cagionare la morte della moglie, sia la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio, quantomeno nella forma del dolo alternativo.

In definitiva, i giudici del merito si sono correttamente attenuti all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la scarsa entità (o anche l’inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non è circostanza idonea ad escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto può essere rapportabile anche a fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa, ovvero, come nella specie, all’intervento di un terzo (Sez. 1, n. 52043 del 10/06/2014, Vaghi, Rv. 261702 – 01; Sez. 1, n. 48681 del 14/09/2022, n.m.; Sez. 1, n. 24173 del 05/04/2022, Rusu, Rv. 283390 – 01; Sez. 1, n. 45332 del 02/07/2019, Rv. 277151 – 01).

Trattasi di argomentazioni assolutamente adeguate e congrue, che le censure difensive non riescono a disarticolare.