Meno avvocati: non è una brutta notizia (di Riccardo Radi)

Ieri è stato pubblicato il rapporto del Censis che ha parlato anche degli avvocati, oggi in Italia ci sono poco più di 240.000 avvocati (facendo riferimento agli iscritti alla Cassa Forense e comprendendo i pensionati contribuenti): se ne contano 4,1 ogni mille abitanti.

Secondo il rapporto nel 2022 gli iscritti si sono ridotti dello 0,7% rispetto al 2021.

Il calo degli avvocati iscritti non è una brutta notizia e mi fa tornare in mente  che nel 1921, nei “Quaderni della Voce” diretti da Giuseppe Prezzolini, Piero Calamandrei pubblicava “Troppi Avvocati!“, un pamphlet dalla tesi evidente: la presenza in Italia di tanti legali ha prodotto una “elefantiasi patologica degli ordini forensi” che ha portato a una “esasperata lotta per l’esistenza”, queste frasi sono state scritte nel 1921 ma sono di una attualità sconvolgente ed è un demerito della politica forense degli ultimi cento anni.

Quando Calamandrei mandava in stampa il suo saggio in Italia c’erano 39,4 milioni di abitanti e 25mila avvocati. Oggi, secondo l’Istat sono 58.983.122 gli italiani residenti in Italia all’1° gennaio 2022 e gli avvocati 244mila. Se erano troppi cento anni fa, nel 2023 sono ancora esorbitanti.

La professione non è più oggettivamente attraente per i giovani sia per le difficoltà di accesso e sia per il calo drastico della redditività, di conseguenza, anche il numero di laureati subisce una contrazione del 13,2%, attestandosi su un totale di poco superiore alle 20.000 unità nell’ultimo anno accademico. I risultati dell’ultima indagine sull’avvocatura condotta dal Censis evidenziano che il 27,9% dei giovani avvocati ritiene abbastanza critica la propria situazione, e il 22,1% molto critica, a causa del poco lavoro e di una generalizzata incertezza nella professione.

La questione è che l’avvocatura sembra sia rimasta immobile per cent’anni, l’assunto che potrebbe apparire provocatorio trova conferma dalla lettura delle pagine scritte dal giurista fiorentino nel 1921.

Ilpunto centrale della riflessione di Calamandrei è la considerazione che la categoria degli avvocati è molto eterogenea, ma dall’esterno viene percepita come monolitica. Inoltre, l’avvocatura presenta una duplice natura: da un lato è una professione privata che si sta sempre più orientando verso metodi imprenditoriali, dall’altro ha una funzione pubblicistica importante.

Il risultato è un quadro dissonante, con un aumento degli avvocati che sembra inspiegabile solo con la razionalità economica, una riduzione dei redditi medi e una grande variabilità dei compiti e dei compensi. Emergono allo stesso tempo realtà organizzate e specializzate molto lontane dall’immagine classica dell’avvocato.

L’idea centrale è quindi quella che il problema non sia tanto il numero di avvocati, ma di quali avvocati c’è bisogno e in che modo la professione può svolgere un ruolo utile per la società.

“È necessario riaffermare energicamente un principio, fondamentale per il nostro argomento: che lo Stato conserva e disciplina gli avvocati, perché essi esercitano una funzione di carattere pubblico.

L’esistenza dei professionisti legali non si giustifica più se non quando si veda in essi dei collaboratori, anziché dei mistificatori, del giudice, ufficio dei quali non tanto è quello di battersi per il cliente quanto quello di battersi per il diritto. Che la funzione degli avvocati sia una funzione pubblica, è oggi, del resto, concordemente ammesso dagli studiosi (cfr. per ultimo: ZANOBINI, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, (Milano, 1920), n. 56); ma di questa utilità pubblica della loro funzione, non credo che sia diffusa la coscienza tra i profani. Eppure questa coscienza non dovrebbe mancare, quando si volesse serenamente valutare quali preziosi benefici per il buon funzionamento della giustizia dello Stato può ritrarre da un ordine di professionisti legali conscio dei propri doveri … L’intervento dei professionisti legali serve appunto a liberare il giudice da una lotta contro la ignoranza e contro la disonestà, che gli toglierebbe ogni serenità ed ogni agilità di giudizio: poiché la presenza del legale, che rappresenta o assiste la parte, è garanzia di scienza e garanzia di probità … Che sia garanzia di scienza, tutti intendono: nella sempre crescente complicazione della vita giuridica moderna, nei rigori dei formalismi procedurali che sembrano misteriosi tranelli ai profani … Il professionista legale è un prezioso collaboratore del giudice, perché lavora in vece sua a raccogliere i materiali di lite, a tradurre in linguaggio tecnico frammentarie e slegate affermazioni della parte, a trar fuori da queste l’ossatura del caso giuridico e a presentarlo al giudice in forma chiara e precisa e nei modi processualmente corretti; onde, in grazia di questo professionista paziente, che nel raccoglimento del suo studio sgrossa, interpreta, sceglie e riordina gli informi elementi fornitigli dal cliente, il giudice è messo in condizione di vedere a colpo, senza perder tempo, il punto vitale della controversia che è chiamato a decidere … Per le ragioni suaccennate la funzione dell’avvocato ha, dunque, carattere eminentemente pubblico.

L’avvocato appare così come un elemento integrante dell’ordinamento giudiziario, come un organo intermedio, posto tra il giudice e la parte, nel quale l’interesse privato ad avere una sentenza favorevole, e l’interesse pubblico ad avere una sentenza giusta si incontrano e conciliano. La sua funzione è perciò necessaria allo Stato, come quella del giudice, in quanto anche l’avvocato alla pari del giudice agisce come “servitore del diritto” (pp. 68-70).

“Specialmente in questi ultimi tempi, nella febbrile crisi di rinnovamento che il mondo traversa, le proteste contro la parassitaria improduttività delle professioni legali son diventate un luogo comune: soprattutto in Italia, dove da tutte le parti concordemente si addita nell’ “avvocatismo” l’ostacolo più formidabile che, insieme colla burocrazia, si oppone alla nostra rapida rinascita nazionale … Per essi dire avvocatura vuol dire affarismo, parlamentarismo, intrigo; per essi avvocatura è sinonimo di ciarlataneria, di retorica senza sincerità, di verbosità senza fatti, di apparenza senza sostanza, di astuzia senza giustizia” (pp. 72-73).

“Si rifletta, infatti, che la sentenza giusta si può considerare come la resultante di tre forze che agiscono in tre direzioni diverse e con diseguale intensità, cioè di tre intelligenze che esaminano uno stesso problema da tre differenti punti di vista e con diverso interesse: di fronte all’opera del giudice, che in posizione centrale guarda la lite nella sua interezza e con spirito che, per essere disinteressato, è imparziale ed equanime, ma anche, spesso, superficiale e svogliato, efficacemente si aggiunge l’opera dei due avvocati competitori, ciascuno dei quali, se può difettare di obiettiva serenità per la unilateralità dell’interesse che lo muove e per la sua tendenza a porre in luce soltanto gli aspetti della questione che giovano al suo cliente, è tuttavia in grado, appunto per la passione con cui si mette al lavoro, di compiere su alcuni elementi della controversia un’indagine assai più profonda di quella che da sé potrebbe compiere il giudice.

Dall’incontro di queste tre forze nasce la verità … Il carattere pubblico della funzione esercitata dai legali non è in contrasto colla loro condizione economica di privati professionisti; l’avvocatura, quando è, come da noi e come in tutti gli Stati del mondo eccettuata la Russia, esercitata in forma di libera professione, non è che uno dei molteplici esempi di quell’interessante fenomeno che la scienza giuridica studia sotto il nome di esercizio privato di pubbliche funzioni” (pp. 80-81).

Oggi gli avvocati che studiano a fondo le cause a loro affidate sono una minoranza sempre più esigua. Riprendendo in mano le memorie forensi dei nostri predecessori di cinquanta e sessanta anni fa, restiamo stupiti non solo della profonda dottrina che vi è profusa a piene mani e della bella cura con cui essa è ornatamente esposta, ma sopra tutto della serena e onesta diligenza con cui la questione appare sviscerata in tutti gli aspetti suoi, della coscienziosa, quasi amorosa, attenzione con la quale vengono considerate le singolarità del caso giuridico: si sente, insomma, attraverso a quelle memorie, l’avvocato che difendeva le cause non solo per amor di lucro ma anche per amor dell’arte, che si appassionava alla sua professione anche dal lato scientifico o estetico, che s’indugiava pazientemente a studiare i vecchi testi per il gusto di arricchire di un aforisma di più la sua dissertazione fiorita … Più volte mi è avvenuto, parlando con magistrati di sicura scienza, di udirli deplorare il progressivo abbassamento di preparazione giuridica che diventa sempre più impressionante nei giovani avvocati.

Né si dica che ormai le discipline giuridiche si sono talmente moltiplicate ed allargate che sarebbe troppo pretendere da un giovane agli inizi della professione la padronanza piena di tutto il diritto positivo nei suoi complicatissimi rami: certo, i nostri predecessori trovavano più facile di noi la via per farsi una buona cultura giuridica, quando il diritto romano costituiva ancora la maggior ricchezza nel patrimonio professionale di un giurista; ma ciò che oggi manca ai giovani non è tanto la conoscenza specializzata di singoli rami del diritto, che nessuno può esiger da loro, quanto la attitudine a colmare con metodo le inevitabili lacune della loro cultura, e la voglia di faticare per colmarle (pp. 102-104).

È trascorso un secolo e purtroppo è sorprendente l’attualità dell’analisi che individua i temi di sempre dell’avvocatura e che rimandano ad una idea molto precisa dell’attività forense: la professione come impegno ad essere pienamente ed attivamente cittadini.