Equa riparazione per ingiusta detenzione: non spetta per le assoluzioni derivanti da un mutamento giurisprudenziale favorevole (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 24006/2023, udienza del 24 maggio 2023, ha escluso che un’assoluzione dovuta ad un mutamento giurisprudenziale in bonam partem (cosiddetto overruling favorevole) possa rendere illegittima la custodia cautelare disposta prima del mutamento e giustificare l’equa riparazione.

Vicenda giudiziaria

La Corte territoriale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta nell’interesse di RA in relazione alla privazione della libertà personale subita, dal 6 settembre 2014, a seguito di ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale perché sottoposto ad indagini, con altre persone, in ordine al reato di partecipazione ad associazione per delinquere ‘ndranghetistica per aver fatto parte di un’articolazione svizzera della ‘ndrangheta.

Motivi di ricorso

RA propone ricorso per cassazione avverso tale ordinanza deducendo, con un unico motivo, vizio della motivazione con riferimento al riconoscimento di un comportamento colposo ostativo alla riparazione a lui ascrivibile.

Il vizio che la difesa ravvisa nell’ordinanza consiste nell’avere i giudici della riparazione omesso di valorizzare il fatto che l’istante sia stato assolto con sentenza della Corte di cassazione per insussistenza del fatto, avendo i giudici di legittimità escluso che il sodalizio oggetto di procedimento penale potesse essere ricondotto nell’alveo dell’art. 416 bis cod. pen., accertando irrevocabilmente l’insussistenza dell’associazione mafiosa. In sostanza, il giudice della riparazione avrebbe dovuto tenere conto del fatto che l’ingiustizia sostanziale della carcerazione preventiva fosse determinata da un’interpretazione della norma incriminatrice palesemente errata. L’erronea applicazione della legge penale da parte del giudice della cautela renderebbe secondario e irrilevante il comportamento colposo dell’istante. Persino nella ricostruzione investigativa l’organizzazione di cui RA era ritenuto partecipe si caratterizzava per la mancanza di reati-fine e di atti di violenza o minaccia, per l’inesistenza di attività economiche riconducibili al sodalizio e per l’assoluto disinteresse rispetto alle consultazioni elettorali.

Riepilogo degli eventi giudiziari

Con sentenza n. 15808 del 25/03/2015 la Corte di cassazione aveva rilevato l’assenza di qualsivoglia minima prova circa gli scopi e l’attività tipica dell’associazione mafiosa. Si tratta del problema della c.d. mafia silente, affrontato dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alle organizzazioni che operano in territori diversi da quelli in cui sono tradizionalmente attive le mafie storiche; già prima dell’applicazione dell’ordinanza cautelare il panorama giurisprudenziale era consolidato nel senso di escludere la possibilità che organizzazioni come quella di cui RA era ritenuto partecipe potessero essere ricondotte nell’alveo dell’art. 416-bis cod. pen.

Lo stesso Primo Presidente della Corte di cassazione aveva escluso che fosse necessaria la rimessione del ricorso alle Sezioni unite, ritenendo che l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implichi che un sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non solo potenziale «ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono in contatto con i suoi componenti».

Con sentenza n. 34279 del 14/07/2015 la Corte di Cassazione aveva, quindi, annullato con rinvio l’ordinanza cautelare a carico di RA sul presupposto che apparisse indispensabile «l’indicazione degli elementi dai quali desumere l’esistenza di una capacità di intimidazione attuale, obiettiva ed effettivamente riscontrabile». I giudici territoriali hanno, invece, sia nel procedimento cautelare che in quello di cognizione, ribadito una diversa interpretazione. La condanna nel giudizio di primo grado celebrato nelle forme del rito abbreviato aveva, peraltro, precluso la possibilità di proporre un ricorso per cassazione sulla gravità indiziaria avverso il secondo provvedimento del Tribunale del riesame, confermativo dell’ordinanza di custodia cautelare.

La sentenza di annullamento senza rinvio emessa dalla Corte di cassazione all’esito del processo penale non lascia margini di dubbio circa l’assenza di prova di una struttura associativa di tipo mafioso a monte degli indici di una condotta partecipativa dei singoli. Nel provvedimento impugnato si è spostata l’attenzione sul comportamento del ricorrente sebbene la giurisprudenza di legittimità avesse chiarito quale fosse il quadro giurisprudenziale in materia di «mafia silente».

L’istante è stato giudicato nelle forme del giudizio abbreviato per cui la sua definitiva assoluzione è avvenuta sulla base di un compendio probatorio coincidente con quello che era stato vagliato dal giudice della cautela, per cui già all’inizio del procedimento difettavano le condizioni di applicabilità della misura cautelare, dato che l’organizzazione di cui RA era ritenuto partecipe non presentava i crismi dell’associazione mafiosa.

Decisione della Corte di cassazione

La Corte territoriale ha escluso il diritto alla riparazione ritenendo che RA avesse colposamente concorso a indurre in errore il giudice della cautela, rendendosi partecipe di «rituali» che ancora oggi accompagnano le riunioni di ‘ndrangheta e cesellano il vincolo di onore che lega tutti gli affiliati alle cosche. Nelle conversazioni intercettate il 30 gennaio 2011 e il 29 ottobre 2011 RA mostrava di rivestire un ruolo centrale rispetto ai presenti e menzionava il referente in Calabria, che nel medesimo processo è stato poi riconosciuto al vertice dell’organismo di coordinamento delle cosche, facendo anche riferimento a turbolenze in atto nella «locale» di F. in provincia di V., proponendo nominativi di soggetti ai quali conferire tipiche cariche di ‘ndrangheta (padrino, quartino, trequartino), indugiando su termini da sempre legati in modo indissolubile a situazioni, cariche e ruoli del mondo della criminalità organizzata.

Per altro verso, la Corte ha evidenziato come nessun contributo fosse venuto dall’interessato per fornire una chiave di lettura alternativa dei fatti rispetto all’impostazione accusatoria.

I giudici di legittimità, si legge nell’ordinanza, hanno sottolineato come «l’elemento costituito dall’assunzione di cariche e gradi propri dell’organizzazione ‘ndranghetistica («mastro disponente» e «caposocietà») è più suggestivo di una reale partecipazione associativa», pervenendo a ritenere che la partecipazione al sodalizio possa essere desunta «da indicatori fattuali fondati su attendibili regole di esperienza e tra questi, con elencazione esemplificatrice, dall’affiliazione rituale o dall’investitura della qualifica di uomo d’onore».

Avendo RA rappresentato se stesso a tutti gli effetti quale aderente a una «locale» di ‘ndrangheta nell’ambito del quale prendeva parte alle riunioni caratterizzate da rituali tipici dell’organizzazione e affermava, anzi, di rivestire e avere rivestito in passato cariche di primo piano all’interno del gruppo, la Corte della riparazione ha valutato tale condotta come ostativa al riconoscimento del diritto.

…Omessa valutazione dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura cautelare

Il collegio ritiene che sia, in primo luogo, necessario chiarire che la Corte territoriale non ha valutato se potesse trovare applicazione al caso in esame il principio, invocato dalla difesa, secondo il quale «In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, l’aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare» (ex plurimis, Sez. 4, n. 5452 del 11/01/2019, Rv. 275021 – 01; Sez. 4, n. 54042 del 09/11/2018, Rv. 274765 – 01).

…Decisione D’Ambrosio delle Sezioni unite e giurisprudenza successiva

Tale principio trova origine nella pronuncia delle Sezioni unite D’Ambrosio, in cui si era affermato, in prima battuta, che «La circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010 – dep. 30/08/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663).

Nell’occasione il Supremo Collegio ha, nondimeno, chiarito che tale operatività non possa concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha pronunciato il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione. Ciò, in quanto, in tal caso, è preclusa la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato, essendo il giudice oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura; sicché nessuna efficienza causale in ordine alla sua determinazione può attribuirsi al soggetto passivo.

Sebbene nel caso in esame difetti un giudicato cautelare circa l’insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura, secondo il più recente orientamento della Corte di legittimità sussiste il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione anche nell’ipotesi di misura cautelare applicata in difetto di una condizione di procedibilità la cui assenza sia stata accertata soltanto all’esito del giudizio di merito in ragione della diversa qualificazione attribuita ai fatti rispetto a quella ritenuta nel corso del giudizio cautelare (Sez. 4. n. 39535 del 29/5/2014, Rv. 261408; Sez. 4 n. 43458 del 15/10/2013, Rv. 257194; Sez. 4 n. 23896 del 9/4/2008, Rv. 240333), ovvero nei casi di diversa qualificazione del fatto contestato nell’imputazione come reato punibile con pene edittali inferiori a quelle indicate nell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, Rv. 281038; Sez. 4, n. 26261 del 23/11/2016, Rv. 270099; Sez. 4, n. 8021 del 28/01/2014, Rv. 258621; Sez. 4 n. 44596 del 16/4/2009, Rv. 245437; Sez. 4 n. 8869 del 22/1/2007, Rv. 240332).

In particolare, si è affermato che la nozione di «decisione irrevocabile» di cui all’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., comprende anche quella emessa all’esito del giudizio di merito, sempre che da essa si evinca la mancanza, sin dall’origine, delle condizioni di applicabilità della misura. In tale prospettiva, cui il collegio intende aderire, quindi, non è ostativa alla riparazione la circostanza che l’accertamento circa il difetto delle condizioni di applicabilità della misura avvenga in sede di merito e non già nel giudizio cautelare.

Come detto, tale orientamento si è consolidato con riferimento alle ipotesi in cui il giudice del merito abbia derubricato il reato in una fattispecie nella quale difettava la condizione di procedibilità, ovvero in una fattispecie punita con pena edittale inferiore ai limiti di cui all’art. 280 cod. proc. pen. La stessa ratio decidendi, basata sul fondamento solidaristico dell’istituto ripetutamente evidenziato dal giudice delle leggi, può essere ravvisata, oltre che nei casi di derubricazione del reato, in tutte le ipotesi nelle quali il giudice di merito prosciolga per essere il fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione, ovvero in presenza di una causa di non punibilità o di estinzione del reato o della pena già sussistenti al momento dell’adozione della misura cautelare, in quanto anche in tutti tali casi il giudice certifica il difetto ab origine delle condizioni di applicabilità della misura dettate dall’art. 273 cod. proc. pen. Così, nell’ipotesi in cui l’imputato con decisione irrevocabile sia prosciolto per essere il reato impossibile, la stessa sentenza di proscioglimento accerta (implicitamente) l’assenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura cautelare eventualmente disposta. E sempre la medesima ratio impone di qualificare in termini di ingiustizia formale anche i casi nei quali l’imputato sia prosciolto con decisione irrevocabile per difetto di tipicità del fatto contestatogli, essendo mancante anche in tal caso ab origine una condizione di applicabilità della misura.

…Effetti del riconoscimento dell’illegittimità della misura cautelare

In tali ipotesi, all’accertamento della illegittimità della misura consegue, ai sensi dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., il diritto all’indennizzo, salva la verifica che l’imputato abbia dato causa o concorso a dare causa alla custodia con dolo o colpa grave, da compiersi, sulla base del principio affermato dalle Sezioni unite D’Ambrosio, solo quando l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base di elementi diversi da quelli trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare.

Ora, nel caso di specie, è lo stesso ricorrente a riconoscere che, essendo nelle more intervenuta la sentenza di condanna in primo grado, nel corso del giudizio il provvedimento del Tribunale del Riesame confermativo dell’ordinanza genetica della misura cautelare non è stato impugnato, per cui non si è addivenuti a una pronuncia valida in termini di «giudicato cautelare» sul punto inerente alla insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura cautelare.

Ciò nonostante, la disamina delle ragioni che hanno condotto all’assoluzione del ricorrente merita una apposita elaborazione motivazionale, onde valutare se la fattispecie comunque sia sussumibile nella previsione dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. secondo i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità dei quali si è appena dato conto.

…Questione dell’overruling favorevole in tema di necessaria esteriorizzazione del metodo mafioso

Per meglio chiarire la questione, la difesa sostiene che, all’epoca in cui è stata emessa la misura cautelare, fosse consolidato l’orientamento interpretativo, sposato dalla Corte di legittimità nella sentenza che ha definitivamente assolto RA, in base al quale la natura mafiosa di una cellula delocalizzata, seppure ancorata direttamente alla compagine associativa ubicata nei territori nei quali le mafie hanno origine, deve comunque esprimere la forza intimidatrice e la condizione di assoggettamento ed omertà nel luogo in cui la diramazione è operativa. Il giudice della cautela sarebbe stato, dunque, nella condizione di verificare l’assenza delle condizioni di applicabilità della misura sulla base degli atti a sua disposizione.

Va, tuttavia, ricordato che la tesi secondo la quale il reato associativo di tipo mafioso si perfeziona, a determinate condizioni, pur senza l’esteriorizzazione del c.d. metodo mafioso, era da tempo radicata nella giurisprudenza di legittimità all’epoca in cui è stata emessa l’ordinanza cautelare (Sez. 2, n. 4304 del 11/01/2012, Rv. 252205, ha stabilito che «il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine, purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione e il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino concretamente presagire la prossima realizzazione»).

…Questione delle cellule “delocalizzate” di “mafie storiche”

Tale tesi era stata ulteriormente sviluppata da Sez. 5, n. 31666 del 3/03/2015, Rv. 264471, con argomentazioni poi ampiamente riprese da successive pronunce che hanno riproposto lo stesso schema interpretativo. L’idea è che un gruppo associativo, che si ispiri a sistemi organizzativi e operativi propri di famigerate strutture mafiose operanti nelle aree geografiche in cui storicamente quel fenomeno criminale si è manifestato e alimentato, assume i caratteri dell’organizzazione mafiosa pur senza ricorso al c.d. metodo mafioso quando si ponga come articolazione periferica, mera gemmazione, dell’organizzazione mafiosa radicata nella tradizionale area di competenza, e ciò in forza di precisi indici dotati di univocità dimostrativa di un collegamento funzionale ed organico con la «casa madre». In tal caso, infatti, l’articolazione periferica non può che ripetere tutti i tratti distintivi della struttura associativa da cui promana, compresa la forza intimidatrice del vincolo e la capacità di condizionare l’ambiente circostante. Sotteso è il convincimento che l’alta diffusività del fenomeno mafioso ben oltre i tradizionali confini territoriali, che ormai è dato notorio, implica che il messaggio della violenza mafiosa sia divenuto linguaggio universalmente percepibile.

Solo successivamente, Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Rv. 269043 – 01, ha ritenuto che ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, sia necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva e obiettivamente riscontrabile (nella fattispecie la Corte ha annullato la sentenza di merito che aveva qualificato una organizzazione operante in Germania come mafiosa, in assenza di prova dell’esternazione in loco della metodologia mafiosa, ma sulla base soltanto del collegamento degli imputati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese e dell’adozione dei rituali tipici di quest’ultima). Proprio rifacendosi a quest’ultima pronuncia, la Sezione prima penale, con sentenza n. 51489 del 29/11/2019 ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna emessa nei confronti di RA dalla Corte di appello il 23/11/2017, confermativa della sentenza di primo grado. La Corte di cassazione ha escluso la rilevanza penale del fatto partendo dal rilievo che, secondo l’imputazione, la partecipazione di RA alla ‘ndrangheta unitariamente intesa fosse mediata dalla diretta partecipazione alla società di Frauenfeld, nel senso che il far parte di quest’ultima implicasse, proprio perché si trattava di un’articolazione, di una diramazione, l’essere partecipi del più ampio fenomeno associativo, da ciò derivando l’esigenza di accertare unicamente «l’esistenza della ipotizzata articolazione di Frauenfeld e dei connessi ruoli partecipativi ai due ricorrenti contestati». Conseguentemente, i giudici di legittimità hanno escluso la correttezza delle argomentazioni svolte nelle sentenze di merito, evidenziando l’assenza nel caso concreto di «un preciso elemento di fattispecie, descritto dalla norma incriminatrice come condizione della possibilità di definire mafiosa un’associazione, e cioè che i suoi componenti si avvalgano della forza di intimidazione», così ritenendo che fossero da relegare «fuori dalla tipicità i casi in cui i componenti del gruppo abbiano soltanto la potenzialità di avvalimento di quella forza ma non la sperimentino in concreto». Tanto sul presupposto che la locuzione «si avvalgono» contenuta nella disposizione incriminatrice, allorché essa richiama la forza di intimidazione del vincolo associativo, induce ad escludere che l’associazione di tipo mafioso sia qualificabile come reato associativo «puro», richiedendo piuttosto che si produca in concreto l’effetto d’intimidazione (Sez. 6, n. 41772 del 13 giugno 2017, Rv. 271102).

Il giudice di legittimità ha, dunque, assolto RA ritenendo che, in linea con l’impostazione accusatoria cristallizzata nel capo d’imputazione, difettasse un elemento tipico della fattispecie, ossia che l’articolazione periferica fosse «centro di imputazione di scelte criminali», nel senso che l’esperienza criminale di tipo mafioso si fosse inverata nel nuovo contesto e vi fossero state concrete manifestazioni di quella realtà criminale. Si legge, infatti, nella sentenza che: «Gli argini di tipicità del fatto associativo di tipo mafioso – per le strutture che sorgono in territori diversi da quelli ove storicamente la mafia alligna – sono così costituiti o dal concreto esercizio, per così dire in proprio, della forza intimidatrice del vincolo associativo, e quindi dall’esperimento concreto e autonomo del metodo mafioso, o dalla riconoscibilità esterna, per effetto di un collegamento organico e funzionale con la casa-madre, come proiezione di quella stessa associazione che ormai è diffusamente conosciuta e riconosciuta per la sua forza criminale, strutturatasi nel tempo, di cui per traslazione si è portatori».

…Esistenza di una pluralità di indirizzi interpretativi, legittimità della scelta accusatoria di uno di essi e conseguente legittimità della custodia cautelare in carcere dipendente da tale scelta

Tale sintetica disamina del percorso giurisprudenziale in tema di c.d. «cellule delocalizzate» di mafie storiche evidenzia che la giurisprudenza di legittimità all’epoca di applicazione della misura cautelare non avesse consegnato approdi ermeneutici uniformi; il giudice della cautela ha, dunque, legittimamente seguito una plausibile opzione ermeneutica laddove il fatto contestato, coerentemente con il progressivo definirsi in itinere del giudizio di fatto e di diritto nelle diverse fasi processuali, è stato infine ritenuto privo di un elemento tipico. Non può, in altre parole, ignorarsi che l’esito assolutorio sia frutto del suindicato percorso giurisprudenziale, successivo all’applicazione della misura cautelare.

Tale valutazione è d’obbligo, posto che diversi orientamenti interpretativi, specie se ugualmente sostenuti da pronunce di legittimità non conformi tra loro, consentono alla pubblica accusa di formulare legittimamente l’imputazione e al giudice di disporre la misura cautelare, senza per ciò solo legittimare, in caso di esito assolutorio fondato sull’orientamento opposto, il riconoscimento del diritto alla riparazione.

Conferma di tale interpretazione si trae anche dalla soluzione che la Corte di legittimità ha dato al caso in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rilevato la violazione dell’art.7 CEDU (nulla poena sine lege) in ipotesi di condanna pronunciata per fatti antecedenti l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, Rv. 199386 – 01); la sopravvenuta opzione ermeneutica aveva ammesso la possibilità di qualificare come concorso esterno nel reato di associazione mafiosa condotte che secondo altro orientamento giurisprudenziale sarebbero state sussumibili solo in altre figure delittuose (caso Contrada contro Italia deciso il 14/04/2015 dalla Corte EDU); sebbene ritenuto rilevante ai fini del giudizio penale, il contrasto giurisprudenziale antecedente la pronuncia delle Sezioni unite Demitry non ha assunto analogo rilievo nel giudizio di riparazione. In tale ipotesi, pur essendo intervenuta la pronuncia conformativa del giudice dell’esecuzione che ha dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» la sentenza irrevocabile di condanna (Sez.1 n. 43112 del 6/07/2017, Contrada, Rv. 273905), la Corte di cassazione, evidentemente escludendo che si vertesse in ipotesi di ingiustizia formale, ha demandato al giudice del rinvio il compito di verificare la sussistenza o meno della condotta ostativa causalmente correlata all’adozione della misura (Sez. 4, n.7436 del 20/01/2021 e Sez. 3, n.27701 del 24/06/2022). Da ciò trovando conferma la piena autonomia, anche per tale profilo, tra il giudizio di cognizione e il giudizio di riparazione.

…Questione affine della custodia cautelare sofferta in relazione ad un reato successivamente abrogato

A ciò si aggiunga che la legge prevede espressamente, all’art. 314, comma 5, cod. proc. pen., che in caso di assoluzione per intervenuta abrogazione della norma incriminatrice, alla quale è stata ritenuta equiparabile la dichiarazione di illegittimità costituzionale (Sez. 4, n. 15237 del 14/02/2018, Rv. 272474 – 01), il diritto alla riparazione è escluso per quella parte di custodia cautelare sofferta prima della abrogazione medesima. Tale disposizione deve ritenersi espressiva della ratio secondo la quale l’assoluzione determinata da mutamenti sopravvenuti nella disciplina penale, e a maggior ragione dall’evoluzione della giurisprudenza nell’interpretazione della norma incriminatrice, inerenti al fatto che ha dato origine alla misura cautelare non giustificano il riconoscimento del diritto alla riparazione in quanto si tratta di fatti estranei alla situazione giuridica e fattuale quale si presentava al giudice della cautela allorché ha emesso il provvedimento. A tale regola generale non fanno eccezione le ipotesi previste dall’art. 314, commi 2 e 3, cod. proc. pen. che, a ben vedere, sono confermative del principio secondo il quale il diritto alla riparazione deve essere accertato con valutazione ex ante sulla base degli elementi a disposizione del giudice della cautela (Corte Cost. n.219 del 20 giugno 2008, in motivazione).

…Esito del ricorso

Essendo per tali ragioni infondate le doglianze, il ricorso deve essere rigettato; al rigetto segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Commento

Alla base della decisione qui commentata c’è uno schema giustificativo così sintetizzabile: se una persona subisce la privazione della libertà personale in virtù di una scelta interpretativa presente nel dibattito giurisprudenziale al momento della privazione stessa la successiva eventuale sconfessione di tale scelta non renderà illegittimi e quindi risarcibili i suoi effetti.

È questo il senso del richiamo all’imprescindibilità di una valutazione ex ante.

Appare piuttosto chiaro lo scopo di questa giustificazione: se pubblici ministeri e giudici dovessero mettere in conto che ogni loro attività e l’interpretazione che ne costituisce la premessa potrebbero essere sconfessate da visioni successive diverse o da mutamenti normativi sopravvenuti, sarebbero di fatto paralizzati e le loro prerogative funzionali sarebbero sostanzialmente impedite.

Uno scopo chiaro, quindi, e senz’altro condivisibile, avendo molto a che fare con il principio di effettività dell’amministrazione della giustizia.

Non è di questo che si può discutere né della “protezione” ordinamentale che è corretto riservare ai magistrati che compiono attività e applicano visioni giurisprudenziali legittime nel momento in cui sono compiute ed applicate: nessun magistrato, per fare un esempio, potrà essere chiamato a rispondere disciplinarmente o civilmente di scelte né abnormi né arbitrarie per il solo fatto che l’evoluzione insieme normativa e giurisprudenziale le abbia di seguito sconfessate.

Si comprende bene, tuttavia, che questo piano ha ben poco a che fare con la diversa “protezione” che l’ordinamento dovrebbe accordare a chi subisce la privazione del bene fondamentale della libertà in virtù di un assetto ordinamentale che, secondo successive valutazioni politico-legislative o interpretative, viene abbandonato sull’evidente presupposto della sua inadeguatezza, poco importa se originaria o sopravvenuta.

Così in effetti è avvenuto nel caso in esame.

Ove si volesse affrontare la questione secondo le categorie civilistiche si potrebbe ricorrere alla categoria della responsabilità da fatto lecito dannoso, laddove il fatto è il provvedimento cautelare e il danno è la privazione della libertà.

Il nostro ordinamento conosce varie situazioni di tal genere: si citano, a mo’ di esempio, l’espropriazione per pubblica utilità, la revoca del provvedimento amministrativo ex art. 21-quinquies, la responsabilità dello Stato-legislatore per violazione del diritto eurounitario.

La responsabilità da atto lecito serve a riportare equilibrio tra la sfera del danneggiante e quella del danneggiato, cioè tra due diritti incompatibili ma entrambi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Lo strumento del riequilibrio è l’indennizzo che ripara pecuniariamente il danno subito dal danneggiato ma si differenza dal risarcimento del danno arrecato contra jus. Entrambi riparano pecuniariamente ma con funzioni diverse.

È così azzardato un simile accostamento? Può essere, posto che l’arroganza non si addice al giurista, ma non lo è altrettanto teorizzare una mafia senza esteriorizzazione del metodo mafioso?