Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 47670/2023, udienza dell’11 luglio 2023, ha messo a fuoco le caratteristiche della specifica tipologia di corruzione che ricorre quando il pubblico ufficiale “vende se stesso” piuttosto che un singolo atto funzionale.
Il reato di corruzione, nelle sue varie declinazioni, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul “pactum sceleris” tra privato e pubblico agente.
Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto.
Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo se entrambe le condotte, del funzionario e del privato, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente e l’illecito sussiste alternativamente con l’accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell’utilità.
Ciò che deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all’esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia collegata, se quell’atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio.
In particolare, deve essere accertato il nesso tra l’utilità e l’asservimento della il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione e dell’accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità.
Costituisce infatti principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di corruzione propria, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di un’altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.
In linea con il dettato dell’art. 319 cod. pen., è infatti necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.
La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da sola, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui «l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti».
Un tema rilevante attiene alla esatta ricostruzione dell’oggetto del patto corruttivo nei casi in cui, come quello in esame, “il rapporto” tra soggetto pubblico e privato ruoti su interessenze sganciate “a monte” dal compimento di specifici atti, atteso che, al momento della conclusione del patto, il pubblico ufficiale non “vende” atti specifici, ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico.
Concluso l’accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione, le sue dinamiche, la sua evoluzione nel tempo; è l’accordo che si punisce, è la “presa in carico” da parte del pubblico ufficiale d’interessi differenti da quelli che la legge impone di perseguire: un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi nel tempo, in futuro, in modo non preventivato e non specificamente preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo.
I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.
Il tema si incrocia con l’accertamento probatorio dei fatti, e, in particolare, con la prova del senso e della natura dell’accordo, della sua struttura, della sua attuazione, della eventuale esistenza di un ulteriore patto.
Si tratta di un accertamento che deve essere compiuto caso per caso ed in cui, si è fatto già notare, possono assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore, il senso ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo.
Deve essere accertato il “colore” del patto corruttivo (così, diffusamente, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Rv. 279555 ed in motivazione).
Nel caso di specie, il riferimento da parte della Corte territoriale a più episodi, a più atti, a distinti momenti temporali, non consente, in assenza di elementi probatori contrari, di escludere che il fatto corruttivo, nella sua complessità e nella sua evoluzione temporale, costituisca l’esplicitazione, la manifestazione della operatività di un unico accordo, che conserva la sua unicità strutturale, con l’effetto ineludibile che viene in considerazione una sola corruzione e non una pluralità di corruzioni.
Un unico patto corruttivo sviluppatosi nel tempo in relazione alla condotta del pubblico ufficiale corrotto – che, in attuazione dell’impegno di “curare” l’interesse del corruttore, pone in essere atti contrari ai doveri d’ufficio in qualsiasi occasione – e del corruttore – che garantisce utilità multiple.
Ciò spiega l’insegnamento secondo cui il compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e che la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto, in esecuzione di un unico accordo illecito concluso, non dà luogo alla continuazione nel reato, la quale è legata soltanto alla esistenza di pluralità di pattuizioni.
Se l’accettazione della promessa e la ricezione dell’utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili geneticamente alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato è e rimane unico (in tal senso, lucidamente, Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360; in senso sostanzialmente conforme, Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583 e, più recentemente, Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Rv. 278192).
