Un presidente di sezione della Corte di appello di Roma ha condiviso pensieri e considerazioni sullo stato della giustizia e sul ruolo smarrito dell’avvocatura.
Parole nette e velate da una vena di rassegnazione per lo stato delle cose.
Metti una pausa pranzo, un tempo uggioso, un avvocato che chiede udienza e prima di chiederti del procedimento ti chiede come va la vita e si inizia a parlare di salute, di magistratura, di musica, di libri e cinema, di avvocatura come era e com’è e viene fuori tutto il malessere di un magistrato che dopo decenni di esercizio della giurisdizione sente il bisogno di dirti che l’avvocatura battagliera e colta serve alla magistratura per esercitare meglio la sua funzione e che il processo dovrebbe essere luogo di libertà.
Passare dalle figure di Danton e Robespierre (per inciso avvocati) ai reali motivi della rivoluzione francese, dettati dal bisogno di avere giustizia delle classi mercantili-borghesi nei confronti degli aristocratici e clero, alla magistratura post-fascismo e alle figure di avvocati con passione, tra questi il mai dimenticato avvocato Domenico Battista.
Il tempo scorre, la porta dell’ufficio si apre più volte, magistrati, personale di cancelleria si affacciano sull’uscio e richiudono la porta con discrezione quasi consapevoli che altrimenti rischiano di spezzare questo fiume di ricordi e di considerazioni tra due perfetti sconosciuti che hanno trovato un filo comune che li spinge a raccontarsi anche delle proprie delusioni e rimpianti: il non volere fare il magistrato, l’amore per la musica e la via mai perseguita del Conservatorio, il giornalismo iniziato e non proseguito, la parentesi di vita a Parigi foriera di incontri e di vita vissuta e tanto altro che rimarrà nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Arriviamo a parlare di una avvocatura bolsa e ripiegata su se stessa senza più slanci e promotrice di istanze libertarie e liberali, oramai poco credibile e di una magistratura che esercita un potere senza calarsi nella realtà che la circonda e per questo rischia di apparire alle volte ottusa e fuori tempo.
Qui il racconto della prima camera di consiglio a Padova e dello scontro vivace per “salvare” una prostituta che aveva favorito la latitanza di un camorrista.
Quella donna avrebbe potuto scegliere in modo diverso? La sua era stata una scelta consapevole o dettata dalla paura che la legava al protettore?
Torniamo al presente e il presidente mi dice: “La magistratura oggi è sempre più lontana dalla realtà sociale che la circonda, alle volte in camera di consiglio mi rendo conto che non si cerca di comprendere il vissuto e la necessità di immedesimarsi per comprendere il contesto dei fatti per i quali dobbiamo esercitare la funzione della giurisdizione e un buon giudice deve farlo per poter giudicare serenamente e con coscienza. Poi dovrebbe esserci una classe forense battagliera che in maniera autorevole richiami i magistrati ai loro doveri e all’esercizio corretto della funzione”.
Il tempo scorre inesorabile, sono quasi le 16,00 siamo entrambi increduli sono quasi tre ore che parliamo.
A questo punto il presidente mi dice “avvocato ma lei era venuto per dirmi che cosa?”. La risposta non poteva che essere: “Presidente dopo quello che ci siamo detti non è importante ripasserò domani”.
Sorridiamo e ci abbracciamo con un misto di gioia e malinconia, la magia della vita è calata imprevista in un ufficio della corte di appello di Roma.
