Qualche anno fa giunse in Cassazione il ricorso presentato nell’interesse di un professionista avverso la decisione della Corte territoriale che, riformando la sentenza di primo grado, aveva assolto un giornalista e il direttore responsabile del quotidiano per cui quegli scriveva dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa.
Il professionista, persona offesa costituitosi parte civile, lamentava essenzialmente un’errata interpretazione del diritto di critica ad opera dei giudici d’appello, addebitandogli di non avere considerato che tale diritto richiedeva comunque il rispetto della verità che era stata invece obliterata e falsificata nell’articolo asseritamente diffamatorio pubblicato dal quotidiano.
Il ricorso fu deciso da Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 6463/2016, udienza del 14 ottobre 2015.
Per ciò che qui interessa, può bastare ricordare che l’impugnazione fu accolta e la sentenza che ne era l’oggetto fu annullata ai fini civili con conseguente rimessione al giudice civile.
Interessa assai di più riportare l’argomentazione centrale della motivazione:
“Certamente non condivisibile è poi l’affermazione dei giudici di secondo grado in base alla quale il “lettore medio” non possa essere destinatario di distinzioni troppo sottili e, dunque, debba accontentarsi di una informazione, per così dire, “all’ingrosso”. Si tratta di una concezione sicuramente paternalistica (nei confronti dei destinatari della informazione) e aprioristicamente giustificatoria (nei confronti dei diffusori della informazione), una concezione sicuramente inaccettabile in quanto legittimante una sorta di “populismo della informazione”, una informazione – vale a dire – scandalistica, che accomuna persone e fatti che, viceversa, il destinatario ha un vero e proprio diritto a conoscere (per quanto possibile) nei suoi esatti termini. L’opinione pubblica, invero, deve formarsi su notizie “chiare e distinte”; conseguentemente i lettori hanno diritto a una informazione puntuale“.
Parole chiare e illuminanti ed è un gran piacere ricordarle.
