La cassazione sezione 1 con la sentenza numero 44214/2023 ha esaminato l’interessante questione dell’effettività del diritto alla prova, quale componente del “giusto processo”, da assicurarsi anche al soggetto sottoposto al procedimento di prevenzione personale o patrimoniale.
La Suprema Corte ha premesso che sul tema della effettività del diritto alla prova del soggetto proposto nel procedimento di prevenzione, anche alla luce dell’intervento legislativo adottato con legge n. 161 del 2017, non risultano precedenti in sede di legittimità oggetto di massimazione.
Fatto
Il tema posto dal ricorrente è quello della effettività del diritto alla prova, espressamente previsto dall’art. 7 comma 4bis del d.lgs. n.159 del 2011, come novellato dalla legge n.161 del 2017.
Si rappresenta che in sede di «ammissione delle prove» era stata depositata lista testi con indicazione di 14 soggetti.
A fronte del diniego opposto dal Tribunale, la difesa limitava a due soli testi (il Mar. …, redattore della principale informativa e l’amministratore giudiziario dott. L.C.) la richiesta istruttoria, che veniva nuovamente disattesa.
Sul piano della rilevanza, la stessa era in re ipsa, trattandosi dei principali portatori di conoscenze anche in chiave di accusa.
Si ritiene dunque violato il diritto alla prova, quale componente del ‘giusto processo’, da assicurarsi anche al soggetto sottoposto al procedimento di prevenzione.
Si ritiene, sul punto, inconferente la motivazione del diniego del motivo di appello, posto che la denunzia di violazione della norma processuale, espressione di un più ampio principio, era stata comunque operata e spettava – casomai – alla Corte di secondo grado attivarsi mediante l’esercizio del potere ex officio, posto che il Tribunale aveva del tutto impedito lo svolgimento della istruttoria in contraddittorio. Si deduce anche la erroneità – in diritto – della affermazione per cui nel procedimento di prevenzione patrimoniale non troverebbe applicazione la disposizione di legge di cui all’art. 7 comma 4-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 e si citano approdi giurisprudenziali in tema di applicazione dei principi del giusto processo in sede di prevenzione.
Decisione
Come è noto, il legislatore del 2017 ha introdotto una previsione espressa (art. 7 comma 4-bis) che testualmente recita: “Il tribunale, dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue”.
Pur mancando il riferimento ad una espressa richiesta di parte e pur in un contesto legislativo che continua a fare riferimento, per la fase della cognizione e con riserva di compatibilità sui punti non espressamente regolamentati, al modello legale del procedimento di esecuzione (v. art. 7 comma 9), è innegabile che con tale innesto normativo sia stato introdotto il «diritto alla prova» nel procedimento di prevenzione.
Il potere di ammissione delle prove (sia documentali che orali, non essendovi limitazione alcuna nella disposizione di legge) è infatti costruito come ‘potere/dovere’ del giudice procedente con il solo filtro della rilevanza e con esclusione delle prove vietate o di quelle superflue.
Ciò del resto è pienamente in linea con gli assetti giurisprudenziali sia interni che sovranazionali che negli ultimi anni (v. Corte cost. n.24 del 2019) ha promosso e realizzato un innalzamento dei profili di garanzia di un procedimento che indubbiamente tende ad incidere (pur senza avere natura strettamente penale) su diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà personale o il diritto di proprietà.
Va menzionato, sotto tale profilo, il recente arresto S.U. in tema di imparzialità del giudice della procedura di prevenzione (sentenza n. 25951 del 2022, Lapelosa).
In tale decisione, che afferma l’applicabilità al procedimento di prevenzione della ipotesi di ricusazione di cui all’art. 37 comma 1 cod. proc. pen. come risultante a seguito dell’intervento additivo Corte cost. n. 283 del 2000, si è detto, in motivazione: [..] L’adeguamento del sistema della prevenzione ai principi costituzionali e convenzionali, inciso sia da novelle legislative che da pronunce giurisprudenziali, ha così ridefinito non solo il perimetro sostanziale della materia ma anche quello procedimentale, determinando la progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento, accompagnata da un graduale allineamento dapprima ai principi generali del giudizio ordinario … e poi a quelli propri del giusto processo [..].
Pertanto, l’estensione dell’area della ricusabilità del giudice è stata ritenuta necessaria – dalle Sezioni Unite – proprio in ragione della avvertita necessità di estendere i principi del «giusto processo» al settore della prevenzione, in virtù della considerazione della incidenza di simili misure su diritti di rilievo costituzionale.
Ora, tornando al diritto alla prova, riconosciuto sul piano legislativo, occorre precisare – anche in riferimento al caso concreto – l’ambito di applicazione della previsione di legge e il suo modus applicativo.
Un primo aspetto è quello evidenziato dalla Corte di appello nella decisione impugnata, secondo cui la disposizione dell’art. 7 comma 4-bis si applicherebbe alle sole procedure tese ad applicare la misura personale e non anche alle procedure di prevenzione patrimoniali, governate esclusivamente dalla norma di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 159 del 2011.
L’assunto non può essere condiviso.
In primo luogo va osservato che tutte le misure di prevenzione (sia personali che patrimoniali) presuppongono la ricognizione, da parte del giudice, della condizione tipica di pericolosità del soggetto proposto (cd. fase constatativa del giudizio).
Anche nelle ipotesi di confisca cd. disgiunta (per assenza di domanda in tema personale o per la ritenuta cessazione della pericolosità soggettiva) il primo compito del giudice della prevenzione è quello di accertare l’esistenza o meno della pericolosità – anche storica – del proposto e tale accertamento non può che essere governato dalla disposizione di legge di cui all’art. 7 del d.lgs. n.159 del 2011 (che include, come si è detto, il diritto alla prova).
In secondo luogo va rilevato che l’art. 23 del citato d.lgs. – in tema di procedimento teso all’applicazione delle misure patrimoniali – al primo comma espressamente richiama le disposizioni di cui al titolo I, capo II, sezione I, tra cui rientra il citato articolo 7, salvo che sia diversamente disposto.
I commi successivi dell’art.2 3 regolamentano, in particolare, la posizione dei terzi proprietari o comproprietari dei beni sequestrati, soggetti cui – già prima dell’intervento normativo del 2017 – era espressamente concessa la facoltà di chiedere l’acquisizione’ di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca’.
In altre parole, la specialità dell’articolo 23 (su cui, per tutte, v. Sez. I n. 49180 del 6.7.2016, rv 268652, decisione che verrà ripresa in seguito), sino all’intervento di novellazione adottato sul testo dell’art.7 con la legge del 2017, era proprio quella di disegnare un embrionale ‘diritto alla prova’ in capo ai terzi chiamati ad intervenire nel procedimento, lì dove il diritto alla prova, con la legge n.161 del 2017, è stato esteso e generalizzato, con la conseguenza che anche il soggetto proposto ne è oggi titolare.
Il secondo aspetto che va investigato è quello dello statuto di impugnabilità del diniego di ammissione della prova, ritualmente richiesta ai sensi dell’art. 7 comma 4-bis da una delle parti.
Ciò perché, in particolare, la disposizione in parola non è presidiata dalla sanzione di nullità, testualmente prevista solo per altre disposizioni in rito (v. art. 7 comma 7 del citato d.lgs.).
Non opera, pertanto, il meccanismo tipico della querela nullitatis con eventuale regressione per vizio del procedimento, anche perché trattasi di vizio che riguarda l’assunzione delle prove e non le modalità di instaurazione del contraddittorio.
Secondo la Corte di Appello, nella decisione impugnata, da ciò deriva che l’unico rimedio alla violazione sarebbe quello di formulare, contestualmente alla deduzione, istanza di riassunzione della prova denegata in secondo grado, adempimento non realizzato nel caso di specie dalla parte.
Anche tale assunto non può essere condiviso.
Le violazioni del procedimento di ammissione della prova, anche se non presidiate dalla sanzione di nullità, sono da ritenersi «violazioni della legge processuale» (come stabilito, proprio in ipotesi di violazione del diritto alla prova del terzo, ai sensi dell’art. 23 d.lgs. n. 159 del 2011, dal citato arresto Sez. I n. 49180 del 2016) in quanto tali deducibili sia nel giudizio di primo grado e in sede di legittimità.
Peraltro, in sede di legittimità il ricorso, in materia di prevenzione, è ammesso per ogni ‘violazione di legge’ e non soltanto per le violazioni presidiate da sanzione di nullità.
Il giudice di grado superiore che riceve la denunzia di violazione di legge è, dunque, tenuto ad esaminarla e, se fondata, opera in funzione dei poteri a lui riconosciuti dalla legge processuale.
Ove si tratti di giudice di secondo grado può esercitare – in funzione di rimedio alla violazione accertata – i poteri di completamento istruttorio tipici della fase di merito (dunque assumere le prove erroneamente denegate) ove si tratti di giudice di legittimità dovrà valutare l’effettività della violazione e, se del caso, annullare con rinvio al giudice di appello.
Non vi è pertanto alcuna preclusione o decadenza per essersi la parte privata limitata a dedurre l’esistenza della violazione, senza contestualmente chiedere la riassunzione della prova in secondo grado.
II terzo profilo da esaminare riguarda il modo di esercizio del potere/dovere del giudice e, di riflesso, la fondatezza o meno della denunzia di violazione della norma in parola.
La scarna regolamentazione legislativa impone di rintracciare le coordinate applicative nei principi generali, nel modo che segue.
È evidente che la introduzione del diritto alla prova nel procedimento di prevenzione non comporta la ‘necessaria assunzione in contraddittorio’ di ogni elemento di prova, restando utilizzabili (salvo il caso di prove vietate o illecite) gli atti depositati dall’autorità proponente in sede di instaurazione del procedimento.
Anche sul piano dei principi costituzionali la natura ‘non penale’ del procedimento di prevenzione esclude che possano trovare piena applicazione i commi 3, 4 e 5 dell’art. 111 Cost., dovendosi ritenere applicabile la sola parte ‘non penalistica’ in tema di giusto processo.
Ed è in rapporto alla perdurante utilizzabilità degli atti depositati in sede di proposta che va orientato – a parere della cassazione – il potere del Tribunale, a fronte della richiesta di ammissione della prova orale, di apprezzare la rilevanza e la eventuale superfluità della richiesta.
In via di esemplificazione, al di là del parametro intuitivo della rilevanza (pertinenza con l’oggetto del procedimento), la richiesta di ammissione della prova orale non potrà essere ritenuta superflua tutte le volte in cui la escussione in contraddittorio – anche di una fonte di prova ricompresa nel materiale cartaceo oggetto di deposito – possa risultare utile a verificare i profili di attendibilità del dichiarante o ad incrementare la conoscenza su punti controversi dell’inquadramento soggettivo di pericolosità o del giudizio di riferibilità (o di sproporzione) dei beni al soggetto proposto.
In tal senso, non necessariamente la prova di cui si chiede l’ammissione deve essere inquadrata – in via prospettica – come elemento a discarico, essendo ricompresa nel diritto alla prova – in via generale – la possibilità di rivolgere domande o sollecitazioni anche alle fonti di prova tendenzialmente a carico.
Per tale ragione, venendo al caso di specie, va rilevato che la richiesta introdotta nel procedimento di primo grado dalla difesa del B., quantomeno come ridimensionata dopo il primo diniego (nei limiti indicati nell’atto di ricorso), era da ritenersi prima facie ammissibile in rapporto alla previsione di legge di cui all’art. 7 comma 4-bis ed alla complessità – anche nei suoi aspetti patrimoniali – del presente procedimento, né poteva essere diversamente regolamentato dal giudice procedente (attraverso la produzione di documenti o memorie) il diritto alla escussione delle fonti in contraddittorio.
La violazione di legge – in detti profili – va pertanto ritenuta sussistente, il che comporta l’annullamento della decisione emessa nei confronti di B.G. con rinvio alla Corte di appello, allo scopo di realizzare la raccolta in contraddittorio delle prove non ammesse dal Tribunale.
La natura di decreto non permette il rinvio a diversa sezione, a mente del disposto di cui all’art. 623, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.; per contro, la natura decisoria dell’atto impone che il collegio chiamato alla nuova valutazione sia composto diversamente, stante l’incompatibilità dei componenti che hanno partecipato alla decisione oggetto di impugnazione (v. SU Gattuso).
