A conclusione dell’udienza pubblica tenutasi il 27 aprile 2023, il collegio della sesta sezione penale della Suprema Corte, decidendo i ricorsi degli imputati e del PG contro la decisione della Corte di assise d’appello di Palermo nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato – mafia, ha confermato l’assoluzione degli ufficiali del ROS dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, mutando tuttavia significativamente la formula assolutoria: non più “perché il fatto non costituisce reato” ma “per non avere commesso il fatto”.
Il collegio ha anche confermato l’assoluzione di Marcello Dell’Utri.
Ha infine rilevato l’avvenuta prescrizione del reato contestato a Leoluca Bagarella e Antonio Cinà per via della riqualificazione nella forma tentata del delitto loro contestato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato.
In un commento di TF coevo alla notizia della decisione si scriveva così:
“È questo l’epilogo di una ipotesi giudiziaria che ha attraversato decenni, è stata esplorata da plurimi uffici giudiziari, è stata costantemente oggetto di una spasmodica attenzione mediatica e che si è addirittura trasformata in uno spartiacque etico: dalla parte sbagliata gli uomini delle Istituzioni che avevano assecondato l’asserita trattativa, dalla parte giusta coloro che l’avevano combattuta politicamente e giudiziariamente.
Da oggi è verità giudiziaria non più discutibile che la pressione stragista di Cosa nostra nei confronti dello Stato fu un fatto esclusivamente mafioso e, benché causa diretta di uno dei periodi più bui e tragici della storia repubblicana, non provocò cedimenti istituzionali.
Ne riparleremo ma per intanto questo è il senso che pare di potere ricavare dal dispositivo della decisione resa nota nel pomeriggio di oggi.
E se sarà confermato che è questo, si può solo esserne contenti da cittadini italiani“.
Il 10 novembre 2023, a distanza di poco più di sei mesi dall’udienza di trattazione, è stata depositata la motivazione della decisione: il commento può quindi alimentarsi di un percorso noto e non più soltanto immaginato.
Le considerazioni che seguiranno saranno divise in paragrafi, dedicati ai tre temi che si preferisce sottolineare tra i tanti pur meritevoli di attenzione.
La violazione del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio (regola BARD)
Viene qui in rilievo (pagg. 63 e ss.) la ricognizione insieme normativa e giurisprudenziale di una regola valutativa che, pur nata per consolidare e definire in modo più netto il principio ordinamentale del favor rei, nell’applicazione concreta è stata spesso degradata ad una mera formula descrittiva che nulla aggiungeva di nuovo ai canoni valutativi già ampiamente e convintamente applicati nella giurisdizione nazionale (per un approfondimento si rinvia al nostro “Il ragionevole dubbio nella giurisprudenza di legittimità“, consultabile a questo link).
Si constata con piacere che i giudici del collegio della sesta sezione penale si sono lasciati alle spalle la svogliata banalizzazione di tanti loro predecessori ed hanno restituito alla regola BARD la centralità che le è stata spesso negata.
Non solo: hanno avuto cura di ricordare, conformemente a un ben preciso ma troppo spesso dimenticato passaggio esplicativo contenuto in Sezioni unite, Troise, n. 14800/2018, che tale regola “esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna; il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione […] Nella sua complessiva valenza, dunque, il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio impone un modello di organizzazione sul fatto che non ammette nella motivazione la sussistenza di dubbi interni (ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l’esistenza di un’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica)“.
Lo si ribadisce: fa piacere leggere parole così nette e condivisibili, avendo consapevolezza che non sono moneta corrente.
L’estensore chiude questa parte – e dà inizio alla successiva – con questa lapidaria espressione: “Ciò posto, entrambi i profili della c.d. regola bard sono stati violati nella sentenza impugnata“.
Seguono (pagg. 65 e ss.) le ragioni che hanno imposto un giudizio così severo: non è questa la sede che possa consentire una loro analisi dettagliata sicché ci si limita a dire che le si ritiene massimamente condivisibili.
L’approccio storiografico
Così si legge nell’avvio del paragrafo 6.8 (pagg. 71/72):
“Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale […]
Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio.
La trama di entrambe le sentenze di merito, infatti, pur muovendo dal corretto rilievo che la c.d. «trattativa Stato-Mafia» non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è, tuttavia, monopolizzata dal tema dei contati intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del R.O.S. e quelli della associazione mafiosa denominata “cosa nostra” e dall’accertamento degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo“.
È un rilievo fortemente critico, traducendosi in un addebito di smarrimento del ruolo e dei limiti funzionali del giudice di merito e di inconcludente o minima significatività dell’istruttoria condotta.
Eppure coglie in modo esemplare la voglia bulimica di tutto sapere e tutto spiegare alla quale non hanno saputo resistere entrambi i giudici di merito.
Basterà qui riportare il periodo iniziale della motivazione propriamente detta della sentenza della Corte d’assise di Palermo (pagg. 65 e ss.):
«senza alcuna enfasi, può con assoluta serenità affermarsi che l’istruttoria dibattimentale svolta nel processo di cui la presente sentenza costituisce epilogo ha ricostruito la storia recente dell’organizzazione “cosa nostra” […]. Il processo ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri».
Così ne avevo parlato nel mio scritto “La trattativa Stato-Mafia“, pubblicato l’8 aprile 2020 sulla rivista Diritto penale e Uomo (consultabile a questo link per chi fosse interessato):
“Non si tratta di una sottolineatura fine a se stessa, non è il bisogno di far comprendere quanto sia stato duro l’impegno necessario e quanta dedizione ci sia voluta per completare l’impresa.
Non è questo.
La Corte avverte che il suo lavoro ha raggiunto una profondità e un’estensione non comparabili con qualsiasi altra esperienza giudiziaria precedente o coeva e trova in questo una legittimazione e una credibilità tali da farne un unicum nel panorama dei giudizi che hanno esplorato direttamente o indirettamente la trattativa.
Segue non a caso l’esposizione dei fatti esplorati: tentativi di golpe e stragi dei primi anni Settanta, sequestro e uccisione di Aldo Moro, stagione del terrorismo brigatista, gesta della loggia P2, sequestro Cirillo, ai quali si sono aggiunte le stragi di mafia e gli omicidi di uomini delle istituzioni.
Sullo sfondo – avverte la Corte – si materializzano ancora, componendo un unico filo conduttore, gli interventi di strutture massoniche e paramassoniche e di esponenti infedeli dei cosiddetti servizi segreti.
Si accentua in tal modo l’irripetibile ampiezza dell’esplorazione e si introduce una nuova suggestione: la trattativa viene da lontano, da un mondo segreto e parallelo fatto di intrighi e ombre in cui si parlano, agiscono e convergono lo Stato e l’antistato e i loro mediatori in servizio permanente con il risultato di corrodere le fondamenta democratiche del Paese e di rendere possibile quello che dovrebbe essere impossibile e impensabile.
Da questa prima sensazione ne derivano altre che le sono strettamente connesse.
Attengono ad altrettanti pensieri forti che pare di individuare alla radice della decisione.
Nulla è troppo quando è necessario capire fenomeni di questa portata: non vale in casi del genere il banale principio dell’economia dei mezzi processuali per il quale compito del giudice è identificare il limite minimo di ciò che serve per la sua decisione e non oltrepassarlo; vale invece l’opposto principio che quanto più si estende l’accertamento, tanto meglio e con più precisione si arriverà alla verità.
Perde rilievo il tempo la cui importanza e i cui effetti cedono di fronte al valore primario della verità da raggiungere.
Scolorano, nel senso di non potere incidere sull’esercizio delle funzioni del giudice o di meritare di essere stigmatizzate quando invece incidono, perfino le regole normative o loro interpretazioni che neghino o ostacolino l’accertamento della verità come inteso dalla Corte“.
Il collegio della sesta sezione penale ha colto a quanto pare la medesima caratteristica e l’ha duramente stigmatizzata.
Il dato quantitativo
Il passaggio della motivazione cui è dedicato questo paragrafo è immediatamente successivo a quello di cui si è appena detto e, come si vedrà, non è affatto un caso.
Potrebbe sembrare eccentrico, e comunque futile, evidenziare questo dato.
Sarebbe tuttavia un’impressione sbagliata posto che il collegio di legittimità ha da un lato menzionato esplicitamente il dato dimensionale delle due sentenze di merito, attribuendogli addirittura una valenza negativa nei termini che si vedranno, e dall’altro ha opposto, questa volta implicitamente ma non meno significativamente, una motivazione contenuta in 95 pagine, 51 delle quali sono bastate a giustificare in modo chiarissimo le ragioni della decisione.
Così si legge al riguardo (pag. 72/73):
“Tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 in primo e 2971 in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, del resto, fortemente stigmatizzato le motivazioni delle sentenze caratterizzate da «elefantiasi» o «macroscopicamente sovrabbondanti», rilevando che «tale stile ostacola la comprensione del senso della decisione, tradisce la funzione euristica della motivazione, disattende precise indicazioni di plurime norme processuali» (Sez. U, n. 40516 del 23/6/2016, Del Vecchio, in motivazione).
Secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere «ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».
L’estensore descrive in tal modo una sequenza rovinosa di errori: l’accertamento processuale è stato indebitamente dilatato ben al di là dei limiti posti dal manifesto accusatorio; si è di conseguenza raccolta una mole esorbitante di dati per lo più irrilevanti rispetto alle contestazioni in campo; la motivazione di entrambe le sentenze di merito è stata inquinata dalla massa di “rumore” acquisita senza che ne fosse necessità; il risultato finale è un discorso giustificativo affetto da elefantiasi e quindi privo della chiarezza e della concisione in assenza delle quali la motivazione diventa inservibile al suo scopo.
L’estensore non ne ha fatto cenno, non avendone bisogno e non essendo suo compito, ma è comunque opportuno sottolineare un’ulteriore e altrettanto dannosa conseguenza di questi gravi scostamenti dalla fisiologia procedimentale: il decreto di rinvio a giudizio che ha dato il via al processo di cui si parla fu emesso il 7 marzo 2013; ci sono voluti dunque più di dieci anni per arrivare ad una sentenza definitiva e varie ipotesi di reato sono andate incontro alla prescrizione; la bulimia giudiziaria porta anche a questo.
Considerazioni finali
L’affaire “trattativa Stato-mafia” ha avuto finalmente il suo epilogo.
Quello giudiziario – si intende – poiché è facile prevedere che il dibattito continuerà negli ambiti sociali, accademici e storici.
La sentenza della Suprema Corte racconta la verità processuale ed è una verità che sconfessa nel profondo la tesi d’accusa e le decisioni interlocutorie che l’hanno provvisoriamente avallata.
Non solo quella tesi viene respinta ma anche il modo in cui i primi giudici e, in certa misura anche i loro colleghi d’appello, si sono accostati al processo, sia nella sua istruzione che nella fase valutativa.
Si crede di non sbagliare dunque se si afferma che la Cassazione ha rigettato non solo un risultato giudiziario ma la visione che lo ha propiziato, nei termini e per le ragioni prima precisati.
È una decisione pienamente condivisibile, lo sì è già detto, resta adesso da vedere in che misura riuscirà ad ispirare un nuovo clima in cui non ci sia più spazio per teoremi e accanimenti accusatori così confliggenti con il senso e le regole della giustizia penale.
