Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 1937/2023, udienza del 13 dicembre 2022, afferma che il reato di resistenza e quello di oltraggio, possono concorrere nella ipotesi in cui la condotta criminosa, pur ledendo unitariamente l’interesse del regolare funzionamento della pubblica amministrazione, si realizza oltre che attraverso condotte minacciose violente, attraverso condotte dirette a offendere la reputazione dell’agente che attingano l’apprezzamento di sé del pubblico ufficiale sia nella dimensione personale, sia nella dimensione funzionale e sociale, potendosi giustificare la tutela assicurata ai pubblici ufficiali dalla fattispecie di cui all’art. 341-bis cod. pen., rafforzata rispetto a quella dei comuni cittadini, allorché sia minata la reputazione dell’intera pubblica amministrazione.
Ai fini della esclusione della ritenuta sussistenza del reato di oltraggio, escludendo che il reato fosse assorbito in quello di resistenza, la sentenza impugnata ha richiamato un precedente di legittimità a stregua del quale il reato di oltraggio non è assorbito, bensì concorre con il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, anche qualora la condotta offensiva sia finalizzata allo scopo di opporsi all’azione del pubblico ufficiale, in quanto la condotta ingiuriosa non è elemento costitutivo del reato previsto dall’art. 337 cod. pen. (Sez. 6, n. 39980 del 17/05/2018, Rv. 273769).
Nella massima ora riportata si evidenzia che nella fattispecie l’imputata, dopo aver ingiuriato i pubblici ufficiali con espressioni offensive riferite alla loro appartenenza alla Polizia di Stato, li minacciava di morte al fine di opporsi alla richiesta di mostrare i documenti e di farsi identificare.
La dinamica descritta in tale decisione dà conto di una progressione della condotta dell’agente, distinguendo una prima parte della condotta, in cui le parole oltraggiose costituivano manifestazione di un comportamento offensivo volto a contestare il prestigio e l’onore dei due agenti, in quanto appartenenti alla Polizia di Stato precisando che solo successivamente, davanti alla reiterata ed insistita richiesta di documenti, l’imputata aveva minacciato di morte almeno uno dei due poliziotti.
Si tratta di una dinamica della condotta del tutto diversa dalla fattispecie in esame in cui, viceversa, le modalità del fatto, ricostruito attraverso le parole di uno dei presenti secondo cui, all’arrivo dei poliziotti, l’imputata e la sorella li aveva investiti con parole ingiuriose e minacciose (brutti stronzi, chi credete di essere, ve la faremo pagare), rendono configurabile un’unica e unitaria condotta.
Correttamente la difesa ha richiamato, in relazione alla descritta dinamica della condotta, il principio del ne bis in idem sostanziale non potendo, invece, venire in rilievo il tema del rapporto strutturale tra fattispecie di reato, secondo il principio di specialità, ovvero il rilievo che esse si pongono in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, un aspetto che involge il rapporto tra le norme: si tratta, tuttavia, di criteri di ricostruzione che non esauriscono, in presenza di illeciti consumati attraverso un’unica condotta commissiva la problematica della doppia incriminazione di un’unica condotta materiale.
Come noto, sulla scorta delle precisazioni recate dalla sentenza della Corte costituzionale (sentenza n. 200 del 2016) che confermano i principi convenzionali in materia di bis in idem e la lettura che da tempo risalente le Sezioni unite hanno dato della disposizione di cui all’art. 649 cod. proc. pen., il giudice del merito non è esonerato dall’indagine relativa alla identità empirica del fatto e neppure le valutazioni sul piano del rapporto tra fattispecie impongono di applicare il divieto del bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione od omissione.
Il giudice, infatti, nel verificare l’ambito di operatività della preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen., deve porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; un concorso formale dei reati.
La nozione di fatto di reato, nella delineata prospettiva, è l’accadimento materiale «affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi». Con la precisazione che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto non possono comportare il riemergere dell’idem legale, giacché esse non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico.
Consegue dall’applicazione di tali principi che nella fattispecie in esame si è in presenza, a fondamento della contestazione di resistenza a pubblico ufficiale (ormai divenuta irrevocabile) e di oltraggio a pubblico ufficiale (oggetto di ricorso) della mera duplicazione di un’unica frase proferita dall’imputata tanto ciò è vero che, nel primo capo di imputazione, quello di resistenza, ove pure vengono richiamati gli sputi indirizzati agli agenti e le minacce di fargliela pagare, è omessa la frase oltraggiosa, con la quale l’imputata aveva esordito attaccando i poliziotti al momento del loro arrivo, espressione che costituisce oggetto dell’imputazione imputazione al capo b).
Né risulta dalla sentenza impugnata che la condotta di resistenza abbia avuto ulteriori epiloghi minatori e oppositivi, del tutto genericamente richiamati nella sentenza di primo grado con rinvio a “rinnovate violenze” commesse in danno degli agenti.
Ritiene il collegio che l’unitarietà e anzi la sovrapponibilità contestuale di tempo e di luogo e la persistente e unitaria volontà di opporsi agli agenti, resa evidente dalla prosecuzione dell’oltraggio nella minaccia, come sono avvinti da una logica unitaria sul piano della condotta materiale (oltre ad essere offensivi del medesimo bene giuridico costituito dall’ordinato svolgimento della funzione pubblica) così sono indissolubilmente collegati fra loro sul piano della valutazione giuridica e non possono che dare luogo alla configurabilità dell’unico reato di resistenza.
Non osta a tale ricostruzione la parziale coincidenza del bene giuridico oggetto delle fattispecie di resistenza e di oltraggio, reato questo che, oltre al l’interesse del regolare funzionamento della pubblica amministrazione, tutela anche la buona reputazione della pubblica amministrazione.
Si tratta, infatti, di un criterio che non può, ad oggi, ritenersi conducente poiché la concezione naturalistica del fatto di reato, come da ultimo sviluppata dalla Corte costituzionale, in riferimento all’ambito di operatività dell’art. 649 cod. proc. pen., ha messo in chiaro principi di garanzia che devono assistere l’interprete, nella valutazione sulla identità del fatto oggetto delle diverse norme incriminatrici poste a raffronto.
Il giudizio sulla medesimezza del fatto di reato deve essere affrancato dalle mutevoli implicazioni derivanti dall’inquadramento giuridico delle fattispecie, giacché diversamente riemergerebbe il criterio dell’idem legale, escluso dall’ordinamento nel senso indicato dal Giudice delle leggi.
Deve, allora, ribadirsi che il fatto penalmente rilevante ascritto all’imputata attraverso la contestazione del reato di oltraggio si risolve in una mera duplicazione della condotta posta a base della condanna per il reato di resistenza, scindendo sul piano del diritto ciò che è invece unitario anzitutto la condotta, che si era articolata in una serie di atti, iniziata con la pronuncia di ingiurie e proseguita, senza soluzione di continuità, con le minacce, e l’elemento psicologico del reato, concretizzatosi nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, e dell’unicità dell’oggetto fisico (i poliziotti, al momento del loro arrivo) su cui è caduta l’azione oppositiva e investiti da contumelie e minacce.
