La cassazione sezione 2 con la sentenza numero 42482/2023 ha stabilito che in tema di appropriazione indebita, il mancato ritiro presso l’ufficio postale della raccomandata con cui l’azienda comunica la volontà di rientrare nel possesso del bene aziendale affidato al dipendente può costituire elemento di prova della consapevolezza dell’imputato dell’obbligo di restituzione, a condizione che ricorrano altri indici dimostrativi di tale conoscenza.
La Suprema Corte sottolinea che la motivazione della Corte d’appello, nella parte in cui si affida ad un percorso logico esclusivamente presuntivo per dimostrare la consapevolezza del ricorrente circa l’obbligo di restituzione dei beni aziendali, superando il dato fattuale del mancato ritiro delle comunicazioni inviate con la posta, è errata.
Con riguardo al delitto di appropriazione indebita, la conoscenza della volontà del creditore di rientrare nel possesso del bene, ove sia affidata alla comunicazione attraverso il mezzo dell’invio di intimazioni mediante il servizio postale, può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova – che grava sulla parte pubblica – della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione (Sez. 2, n. 34911 del 13/5/2023, n. m., riguardante una fattispecie di autoveicolo concesso in leasing, in cui la Cassazione ha annullato la sentenza che aveva ritenuto dimostrata la conoscenza da parte dell’imputato, che aveva omesso di ritirare la raccomandata con cui la società cessionaria dei diritti del contratto aveva richiesto la restituzione del veicolo, evidenziando che secondo le condizioni generali che regolano l’invio delle raccomandate ordinarie, in difetto di consegna al destinatario è previsto unicamente il rilascio dell’avviso “che indica l’ufficio postale o il centro di distribuzione presso il quale resta in giacenza tutta la corrispondenza che non è possibile recapitare a domicilio” senza indicazione alcuna sul mittente dell’invio).
Per altro verso, la lettura congiunta delle decisioni di primo e secondo grado rende “innocuo” quell’errore, nella misura in cui la consapevolezza dell’imputato in ordine all’obbligo di restituzione dei beni aziendali viene ancorata al contenuto delle missive scambiate tra i legali delle parti (datore di lavoro e imputato) prima del ritrovamento della vettura, mediante il GPS installato sul veicolo, e dell’integrazione di una precedente denuncia di rapina ed estorsione, in cui si elencano per la prima volta i beni aziendali richiesti e mai restituiti; circostanza che, in modo logico, la Corte territoriale ha ritenuto anomala, ponendo in rilievo come secondo un parametro comune di diligenza, incombeva sul dipendente, una volta sottratti i beni aziendali, l’onere di comunicare con sollecitudine la circostanza al datore di lavoro (e non attendere, come avvenuto, il trascorrere del tempo sino all’epoca in cui giunsero le contestazioni disciplinari e, successivamente, il licenziamento intimato dal datore di lavoro).
Ritornando alla sentenza numero 34911/2023 della cassazione sezione 2 evidenziamo che è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che, in relazione allo schema negoziale del contratto di leasing, la condotta di appropriazione indebita si realizza non già per il solo dato del mancato pagamento dei canoni e dell’eventuale previsione pattizia della risoluzione del contratto, essendo necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione e che manifesti l’avvenuta interversione del possesso, comportandosi uti dominus non restituendo il bene senza giustificazione (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016, Rv. 267114 – 01; Sez. 2, n. 25282 del 31/05/2016, Rv. 267072 – 0).
La conoscenza della volontà del creditore, ove sia affidata alla comunicazione attraverso il mezzo dell’invio di intimazioni mediante il servizio postale, può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova – che grava sulla parte pubblica – della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione.
L’omessa consegna del plico postale, pur se avvenuta per il mancato ritiro della corrispondenza giacente presso l’ufficio postale da parte del destinatario, non può integrare la prova richiesta; e ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, se il debitore non consegue la materiale disponibilità del plico non può, evidentemente, venire a conoscenza del suo contenuto e, quindi, dell’intimazione rivolta dal creditore alla consegna del bene.
Peraltro, ove colui che invia la richiesta è soggetto diverso dall’originario concedente il bene concesso in leasing (come avvenuto nella specie, poiché la società concedente il bene aveva ceduto il credito nei confronti dell’imputato, oltre che tutte le ragioni derivanti dal contratto di leasing, ad una società terza e non risultando dal testo delle decisioni l’avvenuta notifica all’utilizzatore della cessione del contratto), il dato del tentativo di consegna di un plico postale inviato da una società che non corrisponde a quella con cui era stato originariamente stipulato il contratto di leasing non consente di trarre alcuna inferenza logica sulla consapevolezza del destinatario dell’attinenza di quell’invio al rapporto contrattuale e, in particolare, all’intimazione a restituire il veicolo oggetto del contratto.
In secondo luogo, non può trovare applicazione in questo contesto alcuna delle presunzioni derivanti dal sistema delle notificazioni mediante il servizio postale, previsto in tema di perfezionamento del procedimento di consegna di atti giudiziari (cui sembra riferirsi la sentenza impugnata, richiamando il termine dei dieci giorni dal rilascio dell’avviso di giacenza al destinatario); quel sistema, che peraltro prevede una serie di garanzie mediante la reiterazione delle comunicazioni dirette al destinatario, con espressa menzione delle indicazioni sull’identità del richiedente la notificazione (art. 8, comma 4, L. 890/1982), per assicurare l’effettiva conoscenza “dell’avvenuto deposito dell’atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l’affissione del relativo avviso alla porta d’ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito” (Corte cost. n. 346 del 23/9/1998) non è contemplato per l’invio delle raccomandate ordinarie, per le quali – in difetto di consegna al destinatario – è previsto unicamente il rilascio dell’avviso “che indica l’ufficio postale o il centro di distribuzione presso il quale resta in giacenza tutta la corrispondenza che non è possibile recapitare a domicilio” (art. 25 delle Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste Italiane, approvato con la Delibera 385/13/CONS del 20 giugno 2013 dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni).
In tale condizione di fatto, non opera la presunzione di conoscenza stabilita dall’art. 1335 cod. civ. poiché manca il requisito dell’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario (la norma fa testuale riferimento al momento in cui gli atti ivi menzionati “giungono” all’indirizzo del destinatario: Sez. 1 civ., n. 24703 del 19/10/2017, Rv. 647221-02); sicché, la prova del necessario presupposto dell’elemento soggettivo del reato (oltre che della stessa condotta di interversione del possesso) manca e tale carenza non può esser superata affidandosi ad un’inversione dell’onere probatorio (che graverebbe sul destinatario, in termini di indicazione dei motivi del mancato ritiro del plico) non consentito in sede penale.
