Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 40821/2023, udienza del 7 settembre 2023, ha annullato un’ordinanza di messa alla prova disposta dopo un’illegittima immutazione del fatto contestato dal PM.
Vicenda giudiziaria
Con ordinanza il GUP disponeva la sospensione del procedimento per la durata di dieci mesi, con messa alla prova nei confronti di SB; seguivano le statuizioni accessorie e funzionali alla verifica.
SB è sottoposto ad indagini preliminari per i reati di estorsione, consumata e tentata, aggravata dall’approfittamento delle condizioni di minorata difesa psichica della vittima; per tali fatti-reato il PM esercitava l’azione penale.
Il GUP, investito dalla difesa della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ha – come richiesto – ritenuto di “qualificare” i fatti contestati nel reato di violenza personale (art. 610 cod. pen.), non ravvisando finalità patrimoniale rilevante nella condotta violenta dell’indagato e, ritenuta la ricorrenza degli altri presupposti indicati all’art, 168-bis cod. pen., ha sospeso il procedimento per mesi 10, ammettendo istante alla messa alla prova.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il PM di primo grado, censurando il provvedimento per la ravvisata violazione dell’art. 168 bis cod. pen., attesa la indebita derubricazione del reato di estorsione in quello di violenza privata, giacché la condotta materiale contestata evidenziava con chiarezza la finalità patrimoniale, talvolta anche guadagnata, che reggeva l’agire violento. Era dunque ontologicamente diversa la condotta contestata rispetto a quella ritenuta ante iudicium.
Decisione della Corte di cassazione
L’istituto della messa alla prova è volto ad assicurare la risocializzazione del reo attraverso un percorso che deve tener conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico.
In particolare, l’art. 464, quater, comma 3, cod. proc. pen. prevede espressamente che il giudice in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. deve giudicare idoneo il programma di trattamento e congiuntamente deve ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati (sul punto si rinvia a Sez. 4, n. 8158 del 13/2/2020, Rv. 278602; Sez. 5, n. 7983 del 25/10/2015, dep. 2016, Rv. 266256).
Ciò in effetti si correla alla peculiare natura dell’istituto, da un lato connotato dal fatto che l’imputato rinuncia al processo ordinario trovando il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo e dall’altro dal perseguimento di scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto (come posto in luce da Sez. U. n. 36272 del 31/3/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).
In tale prospettiva deve dunque segnalarsi che (come rilevato nella sentenza n. 91 del 2018 della Corte costituzionale) «il trattamento per sua natura è caratterizzato dalla finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e deve perciò essere ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione».
Nella fattispecie, all’udienza preliminare la difesa dell’imputato avanzava richiesta di messa alla prova, previa derubricazione delle accuse, il PM presente in udienza camerale si rimetteva alla decisione del GUP; questi, acquisito il programma, alla successiva udienza, ritenuto che il fatto potesse integrare gli estremi del delitto di violenza privata, adottava il provvedimento oggi impugnato.
Orbene, per un compiuto esame della questione posta dal ricorso, appare necessaria una sintetica ricognizione della disciplina della modificazione dell’imputazione dettata dall’art. 423 cod. proc. pen. Il comma 1 dell’art. 423 cit. riguarda – oltre ai casi di emersione di un reato connesso o di una circostanza aggravante, qui non rilevanti – l’ipotesi che nel corso dell’udienza preliminare il fatto risulti diverso da come descritto nell’imputazione.
Per “fatto”, ai sensi della disciplina in esame, deve intendersi «un dato empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la fattispecie astratta (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205617 – 21).
Come la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di puntualizzare, la nozione di “fatto diverso”, che legittima l’iniziativa modificatrice del PM, indipendentemente dal consenso dell’imputato, è quello con connotati materiali anche difformi da quelli descritti nel capo d’imputazione, ma storicamente. invariato nei suoi elementi costitutivi (condotta, oggetto), inclusi i riferimenti spazio-temporali, sicché, se questi sono alterati, si tratta di un fatto nuovo (Sez. 4, n. 5405 del 10/02/1998, Rv. 210845).
Da tale, più restrittiva, nozione si discosta quella, elaborata – in una prospettiva funzionale – sul terreno del principio di correlazione tra accusa e sentenza, secondo cui per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; nello stesso senso, Sez. U, n. 16 del 1996, Di Francesco, cit.).
Ciò posto, l’ordinanza impugnata non qualifica apertamente l’oggetto della modifica dell’imputazione in termini di “fatto nuovo o diverso”, ma si limita ad affermare di aver dato a quegli stessi fatti descritti in imputazione, così come formulata nella richiesta di rinvio a giudizio, una veste giuridica, una qualificazione, diversa. Il che rientrerebbe pure (Sez. 6, n. 3503, del 11/11/1998, dep. 1999, Rv. 212213; Sez. 3, n. 1803 del 01/12/2010, dep. 2011, Rv. 249334; Sez. 4, n. 4527 del 20/10/2015, dep. 2016, Rv. 265735; Sez. 3, n. 8982 del 5712/2019, dep. 2020, Rv. 278402; Sez. 6, n. 16669 del 26/10/2022, dep. 2023, Rv. 284610; Sez. 5, n. 42894 del 26/10/2022, n.m.), nell’ambito delle attribuzioni del giudice (anche quello preposto alla celebrazione dell’udienza preliminare), in quanto il precipitato processuale del principio di legalità consiste proprio nella esatta attribuzione al fatto contestato del nomen iuris (narra mihi factum dabo tibi ius); mentre spetta all’iniziativa esclusiva del PM, nell’esercizio dell’azione penale, la esatta contestazione del fatto “condotta-evento”, non intaccabile dalla valutazione del giudice (Sez. 6. n. 28481, del 17/4/2012, Rv. 253695). Il giudice, anche quello dell’udienza preliminare, può dunque sempre dare al fatto una diversa qualificazione, ma non può modificare il fatto oggetto dell’imputazione (giur. cit.).
Nella fattispecie, invece, il GUP ha proprio immutato il fatto “condotta-evento” descritto in imputazione, escludendo, al fine di rientrare nel perimetro legale che consente l’accesso all’istituto alternativo al giudizio, sia la finalità di profitto della condotta violenta, che il profitto stesso, realmente talvolta conseguito; salvo riconoscere che, in effetti, il profitto talvolta conseguito era di modestissima entità (così rendendo manifesto il vizio di motivazione, per intima contraddizione, emergente dal testo del provvedimento, art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.).
La manifesta illegittimità della ordinanza impugnata impone l’annullamento senza rinvio del provvedimento; gli atti vanno restituiti al GUP, per il prosieguo del giudizio.
