Ludopatia ed alcolismo non bastano a giustificare il riconoscimento della continuazione tra reati (di Vincenzo Giglio)

Due decisioni della prima sezione penale della Corte di cassazione, precisamente le sentenze n. 42877/2023 e n. 42890/2023, emesse in esito all’udienza camerale del 28 aprile 2023, danno la medesima risposta negativa ad una comune censura, quella attinente alla pretesa del riconoscimento della continuazione, pur riferita a due distinti ed asseriti fattori di unificazione: nel primo caso la ludopatia, nel secondo l’alcolismo.

Vediamo in che termini.

Ludopatia (sentenza n. 42877/2023)

L’unicità del disegno criminoso presuppone l’anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità, e che la prova di tale congiunta previsione deve essere ricavata, di regola, da indici esteriori che siano significativi, alla luce dell’esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte poste in essere (Sez. 4, n. 16066 del 17/12/2008, dep. 2009, Rv. 243632).

Il giudice dell’esecuzione, nel valutare l’unicità del disegno criminoso, non può attribuire rilievo ad un programma di attività delinquenziale che sia meramente generico, essendo invece necessaria la individuazione, fin dalla commissione del primo episodio, di tutti i successivi, almeno nelle loro connotazioni fondamentali, con deliberazione, dunque, di carattere non generico, ma generale (Sez. 1, n. 37555 del 13/11/2015, dep. 2016, Rv. 267596).

L’esistenza di un medesimo disegno criminoso va desunta da elementi indizianti quali l’unitarietà del contesto e della spinta a delinquere, la brevità del lasso temporale che separa i diversi episodi, l’identica natura dei reati, l’analogia del modus operandi e la costante compartecipazione dei medesimi soggetti (Sez. 5, n. 1766 del 06/07/2015, dep. 2016, Rv. 266413)

L’identità del disegno criminoso deve essere negata qualora, malgrado la contiguità spazio-temporale ed il nesso funzionale tra le diverse fattispecie incriminatrici, la successione degli episodi sia tale da escludere la preventiva programmazione dei reati ed emerga, invece, l’occasionalità di quelli compiuti successivamente rispetto a quelli cronologicamente anteriori (Sez. 6, n. 44214 del 24/10/2012, Rv. 254793).

Si è altresì specificato che la ricaduta nel reato e l’abitualità a delinquere non integrano di per sé il caratteristico elemento intellettivo (unità di ideazione che abbraccia i diversi reati commessi) che caratterizza il reato continuato (Sez. 2, n. 40123 del 22/10/2010, Rv. 248862).

Infine, le Sezioni unite hanno ribadito che il riconoscimento della continuazione necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).

Ciò premesso, il giudice dell’esecuzione ha correttamente argomentato sulla impossibilità di ritenere i reati di cui alle menzionate sentenze legati dal medesimo disegno criminoso, evidenziando che, seppure si volesse considerare provata la condizione di ludopatia all’epoca di consumazione dei reati, non risulta dimostrato che tale condizione abbia concretamente inciso sulla insorgenza di una determinazione originaria ed unitaria a commettere detti reati, rilevando in aggiunta il difetto totale di ogni altro indice di continuazione, ed anzi ravvisando in senso contrario la notevole distanza cronologica tra le varie violazioni.

Pertanto, lungi dall’avere trascurato la ludopatia dedotta dal ricorrente, l’ordinanza impugnata ne ha escluso il ruolo di indicatore specifico e sostanzialmente unico ad essa attribuito, con impostazione erronea in diritto, alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità.

In punto di diritto, invero, l’esegesi di legittimità non riconosce alcuna assimilazione tra la ludopatia ed altre forme di dipendenza, invece rilevanti in tema di riconoscimento della continuazione, come la tossicodipendenza.

Infatti, si è affermato che «L’estensione dei livelli di assistenza alle persone affette da ludopatia non ne ha comportato l’assimilazione alla tossicodipendenza, né consente, per la differenza che si riscontra tra le situazioni di base, il ricorso all’analogia» (Sez. 1, n. 2136 del 13/7/2018, n.m.; Sez. 1, n. 18162 del 16/12/2015, dep. 2016, n.m.).

E si è specificato che «anche se l’art. 5 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, coordinato con la legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale 10 novembre 2012 n. 263, ha introdotto un programma di aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza ‘con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dalla Organizzazione mondiale della sanità (G.A.P.), la ludopatia, pur potendo avere in comune con la tossicodipendenza la dipendenza dal gioco d’azzardo, non diversamente peraltro da altre situazioni che creano dipendenza come il tabagismo, l’alcolismo e la cleptomania, affonda le proprie radici in aspetti della psiche del soggetto e non presenta, al momento attuale, quegli aspetti di danno, che l’esperienza ha dimostrato essere alla base dei comportamenti devianti cui, nell’ambito della discrezionalità legislativa, la modifica normativa sopra indicata ha inteso porre un rimedio», pervenendosi al rilievo conclusivo che «in definitiva, l’estensione dei livelli di assistenza alle persone affette da ludopatia non ne ha comportato l’assimilazione alla tossicodipendenza, né consente, per la differenza che si riscontra tra le situazioni di base, il ricorso all’analogia» (Sez. 1, n. 866 del 20/04/2017, dep. 2018, n.m.).

Alcolismo (sentenza n. 42890/2023)

Il giudice dell’esecuzione ha valorizzato la condizione di cosiddetta “doppia diagnosi” del condannato, il quale risulta affetto da disturbo psicotico ulteriormente aggravato dall’abuso di alcolici, ritenendo che le condotte di reato siano state fortemente influenzate da tale condizione psicopatologica, peraltro con decorso ingravescente.

Il Pubblico ministero presso il Tribunale di xxx ha proposto ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento dell’ordinanza e lamentando vizio di motivazione in tutte le sue esplicazioni.

Il ricorrente deduce la mera apparenza e tautologia della motivazione, priva di ogni riferimento ai concreti indici positivi dell’esistenza dell’unicità del disegno criminoso, come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Invero, lo stato psicopatologico, anche se fosse provato, può al più ingenerare una inclinazione a commettere reati, ma non costituisce di per sé prova dell’unicità del programma criminoso.

Il ricorso è fondato.

L’impugnata ordinanza presenta criticità che determinano illogicità della motivazione, in particolare in ordine alla mancata illustrazione degli indici dai quali concretamente evincere la ricorrenza del medesimo disegno criminoso, alla stregua delle indicazioni tratte dall’esegesi di legittimità di questa Corte, mentre nessuna valenza ai fini dell’applicazione dell’istituto de quo potrebbe riconoscersi alla mera esistenza di una diagnosi di sofferenza psicopatologica, come peraltro ha affermato lo stesso giudice dell’esecuzione.

I reati per i quali si è riconosciuta la continuazione sono del tutto eterogenei e diffusi in un amplissimo arco temporale, né si è dato conto di alcun concreto riferimento che possa costituire criterio programmatico per la loro commissione.

Trattasi di indici che, attenendo direttamente ai criteri di individuazione della continuazione, segnatamente quelli della contiguità cronologica, della omogeneità dei reati e delle analoghe modalità esecutive, devono essere riconsiderati nella prospettiva indicata dall’esegesi di legittimità, compendiata nella pronuncia di Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074, che ha posto il seguente principio di diritto: «Il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità  delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea».